Con la firma degli ultimi contratti, tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori del Gruppo La Perla vengono ufficialmente riassunti nella nuova casa La Perla Atelier, società controllata da Luxury Holding del miliardario americano Peter Kern, che lo scorso giugno si è aggiudicato la guida dell’azienda bolognese della lingerie di lusso. Dal 1° dicembre, dunque, “le perline” sono tornate a prestare le proprie competenze nella sfida del rilancio di questa preziosa realtà produttiva. In questa intervista, la segretaria generale della Filctem-Cgil di Bologna, Stefania Pisani, tira le somme di una vertenza lunga due anni costellata da incertezze e sacrifici. Che alla fine hanno pagato.
Segretaria, come hanno reagito le lavoratrici?
Le lavoratrici sono galvanizzatissime. Alla fine la tenacia paga sempre.
Peter Kern ha acquisito La Perla nel giugno del 2025. Qual è stato il percorso che ha portato alle firme del 1° dicembre?
Da quando Peter Kern ha acquisito il Gruppo, si sono susseguiti numerosi passaggi organizzativi. Il primo obiettivo è stato garantire il trasferimento delle lavoratrici da realtà aziendali in crisi al nuovo contesto, La Perla Atelier Srl, riportandole così tutte sotto un unico tetto. Ogni singola società coinvolta – La Perla Manufacturing in amministrazione straordinaria, La Perla Management in liquidazione giudiziale e La Perla Italia in liquidazione giudiziale – presentava situazioni differenti che hanno influenzato ogni fase del processo di transizione. In questi mesi abbiamo quindi analizzato nel dettaglio quali potessero essere le condizioni migliori per le lavoratrici, tutelando innanzitutto il principio di parità normativa ed economica, indipendentemente dalla loro origine contrattuale, e individuando soluzioni capaci di salvaguardare sia i diritti pregressi sia le prospettive future. Per noi l’operazione poteva considerarsi conclusa solo con l’assorbimento dell’ultima lavoratrice. Con la firma del 1° dicembre, questo percorso si è finalmente completato.
In cosa si distingue l’approccio del nuovo patron?
Il primo obiettivo espresso da Kern ha riguardato la valorizzazione delle competenze aziendali. Le tornate precedenti, invece, sono state caratterizzate da uno stillicidio di licenziamenti collettivi. Già questo dà la misura di un approccio completamente diverso, che sicuramente ci rassicura. Ovviamente bisogna stare attenti, perché la finalità dell’investimento resta squisitamente imprenditoriale. Stiamo parlando di un’azienda che è stata in crisi per due anni e che precedentemente era stata frantumata dalla gestione speculativa del fondo Tennor. Adesso sarà necessario rimetterla progressivamente in pista e siamo consapevoli non sarà facile. Quello che bisogna fare è riattivare l’azienda e passare alla fase due.
Per il sindacato il mantenimento delle competenze è sempre stato l’obiettivo primario del rilancio aziendale.
Assolutamente. Alla fine di luglio, nel primo incontro con la dirigenza aziendale abbiamo presentato il piano sociale di rilancio specificando l’importanza di trasferire queste competenze impiantando all’interno dell’azienda una vera e propria scuola del sapere, affinché il bagaglio di competenze delle perline possa essere trasferito ai giovani che provengono dagli istituti tecnici professionali del territorio. Ciò anche al fine di costruire un futuro che non sia di sfruttamento.
Competenze che fanno parte di un patrimonio collettivo.
È importante tenere presente che i prodotti La Perla sono espressione di un processo culturale e dell’ingegno di queste lavoratrici che hanno combattuto fino alla fine per salvare un’azienda che sentono come parte di loro stesse. La cultura nel nostro Paese non è solo enogastronomica ma anche manifatturiera e se non lo si accetta il tutto si riduce a un’operazione di marketing.
In che modo la vertenza La Perla può definirsi esemplare, soprattutto in un contesto di crisi come quello attuale per il settore?
La nostra battaglia dimostra che il lavoro corretto, con diritti e salari giusti, con le competenze al centro e con l’impegno quotidiano di chi realizza prodotti di alta qualità, può e deve essere perseguito, consentendo di superare quei casi di sfruttamento lungo tutta la filiera del tessile, anche nell’alta gamma, di cui si sta parlando negli ultimi mesi.
Il caso Tod’s, ultimo di una lunga indagine condotta dalla procura di Milano, secondo lei prova la compromissione del brand “Made in Italy”?
Intanto bisogna capire che cosa si intende per Made in Italy. Se inteso nei termini di un’operazione di marketing, dove solo una parte del processo – che non è quello produttivo – viene svolto in Italia, partiamo azzoppati. Occorre stabilire quali sono le precondizioni affinché un prodotto possa essere definito tale e quindi garantire un processo di tracciabilità delle produzioni Made in Italy, che per questo non possono essere svolte all’esterno. Bisogna anche capire quali i controlli da fare sulla filiera e quale deve essere lo stile di gestione imprenditoriale. Nel momento in cui si strozza la catena di fornitura o l’indotto, è evidente che si determinano condizioni di illegalità. In questo senso, anche i protocolli etici non devono essere un’operazione di marketing, ma espressione dettagliata e regolamentata di una cultura di fare impresa di qualità, dove la dimensione della responsabilità sociale diventa operativa.
E tuttavia Della Valle afferma: “Dire che c’è caporalato nel nei mondi come i nostri è una grossa stupidaggine”.
Probabilmente non ha una visione allargata di quelli che sono i mondi che gravitano attorno al settore. Piuttosto che negare la presenza del caporalato o di condizioni di sfruttamento, gli imprenditori dovrebbero porsi l’obiettivo di individuare queste condizioni e risolverle. Può accadere che qualcosa sfugga al controllo, ma deve essere una priorità cercare quel fenomeno ed evitare che si verifichi.
Cos’altro non ha funzionato nel sistema?
La parcellizzazione delle aziende di piccole dimensioni, dove spesso sono impiegate persone in una condizione di bisogno tale per cui se perdono il posto di lavoro non sanno più come fare a rispondere ai bisogni primari dell’esistenza. Questo rende impossibile l’emersione di determinati fenomeni, che pure esistono ed è un fatto incontrovertibile. Inoltre, i sistemi ispettivi del nostro Paese sono svuotati di funzioni e di risorse economiche, umane e professionali. In questo contesto, è possibile delegare al solo controllo esterno senza la collaborazione delle aziende stesse? Dove sta la responsabilità sociale di impresa?
Anche per questo le categorie del tessile di Cgil, Cisl e Uil hanno manifestato a Firenze, lo scorso 21 novembre, per dire no allo scudo penale che tutela lo sfruttamento nella filiera della moda.
Certamente. L’attuale sistema degli appalti evita che chi beneficia di vantaggi economici paghi le conseguenze di questo meccanismo. Perché creare uno scudo per i soggetti che vedono un aumento della loro capacità economica a discapito di una povertà sempre più diffusa? Dov’è la progressività del nostro sistema, anche sotto il profilo delle responsabilità civili e penali? Possibile che si voglia rafforzare un contesto dove è l’ultimo della catena a pagare anche per quello che invece sulle disgrazie si è arricchito? C’è una differenza tra chi viola la legge perché sta cercando di mettere il pane sulla tavola, e chi invece viola la legge per portare una marea di soldi nei paradisi fiscali o investirli nella finanza speculativa? È un sistema che si sta controvertendo. Il tema centrale è interrogarci su come i nostri sistemi democratici possano reggere a fronte di un capovolgimento di questo tipo. La dimensione di questa complessità ormai è infinita.
In una precedente intervista a Il diario del lavoro, lei ha rimarcato l’importanza per la politica di ragionare sui vincoli da mettere alla finanza speculativa. La lezione è stata imparata?
La cosa certa è che da quando questa vertenza è stata messa sotto i riflettori, il tema della finanza speculativa che, nei fatti, sta ammazzando l’economia reale del paese, ha cominciato ad essere oggetto di discussione pubblica, anche se ancora non in maniera sufficientemente adeguata. È poi altrettanto evidente che bisogna prendere delle decisioni politiche che travalicano anche i confini nazionali. Bisogna capire quanto si vuole puntare al mantenimento delle democrazie per come le conosciamo, a tenere l’economia reale al centro dei nostri modelli economici e non consentire alla finanza speculativa di prevalere sul futuro delle nostre strutture economiche, produttive e sociali. L’economia reale è quell’elemento che consente di distribuire le ricchezze e di creare ricchezza che ritorna alla collettività e alimenta il sistema di welfare. Questo è l’orizzonte che dovrebbe essere preso in considerazione nella discussione politica, ma non mi sembra si stia andando in quella direzione.
Nella manovra si poteva fare di più?
Di certo insistere sulle politiche industriali, che nel nostro paese mancano da decenni. Serve una politica di credito delle imprese di piccole dimensioni, mentre non ci sono vincoli di alcun tipo rispetto alle rendite finanziarie. La cosa eticamente vergognosa che sta emergendo è che i prodotti di alta gamma non vedono ridotto il loro costo per l’acquirente a fronte di una contrazione del costo della manodopera. Questo è un elemento di sovrapprofitto delle imprese che va a scapito della collettività e delle condizioni economiche e normative di chi quei prodotti li realizza.
Tornando alla firma dei contratti in La Perla, adesso che succede?
Sicuramente portare avanti il progetto della scuola del sapere. Dobbiamo imbastire tutto dal nulla, certo, ma resta l’obiettivo di mettere insieme chi ha le competenze con le nuove generazioni che voglio apprendere. In questa complessità servono anche i buoni esempi e noi, con i nostri limiti e con i limiti che non dipendono direttamente da noi, proviamo a controvertire il sistema mettendo l’umanità e tutta la sua bellezza al servizio di questo sistema che dovrebbe essere un patrimonio collettivo e non di parte.
Elettra Raffaela Melucci

























