America versus Europa, ancora una volta, sul fronte dell’economia. Innescata dalle dichiarazioni di Matteo Renzi da Washington, nei giorni scorsi e’ ri-scoppiata la polemica su quale ricetta economica dia maggiori garanzie per la crescita: il modello espansivo made in Usa o quello del massimo rigore preteso dall’Ue? Nel corso della sua visita ufficiale alla Casa Bianca, il nostro premier ha sollecitato l’Europa ha seguire l’esempio di Barack Obama, che ha portato il suo paese fuori dalla crisi in tempo record allargando i cordoni della borsa pubblica con grande generosità. Mentre il vecchio continente (e l’Italia più che mai) resta ancora al palo, proprio per colpa del suo eccessivo attaccamento al rigore. Ma Pierluigi Bersani ha subito replicato al premier, sostenendo che ‘’chi invoca il sistema americano non ha capito niente dell’Italia e dell’Europa’’.
Chi dei due ha ragione? In realtà hanno ragione entrambi. O torto entrambi. Vediamo perché. A leggere le cifre, verrebbe da dare ragione a Renzi: da un lato c’e’ un’America che cresce, dall’altro un’Europa aggrappata disperatamente a un rigore che, al momento, ha fatto più danni che altro, riducendo la crescita, i consumi, l’occupazione, e aumentando invece la povertà e le disuguaglianze. E’ questa la tesi sostenuta con forza anche da un premio Nobel (peraltro americano) come Paul Krugman, che nei giorni scorsi ha attaccato frontalmente non solo il modello del rigore europeo (cosa peraltro non nuova) ma ha, praticamente, dato dell’incompetente al collega Alberto Alesina, economista iperliberista di Chicago (e fin qui, potrebbe essere una questione di rivalità tra cervelloni) ma anche, e soprattutto, a Wolfagang Schauble, ministro dell’Economia tedesco e inflessibile custode dell’austerità europea. Ecco le parole di Krugman: ‘’Se volete deprimervi sul futuro dell’Europa, leggete l’intervento di Wolfgang Schauble, mercoledi sul New York Times. Troverete un ripudio di ciò che sappiamo di macroeconomia, delle intuizioni che l’esperienza europea degli ultimi cinque anni avvalora. Nel mondo di Schauble, l’austerità conduce alla fiducia, la fiducia genera crescita e, nel caso in cui per il vostro paese ciò non funzionasse, significa solo che lo state facendo nel modo sbagliato’’. In altre parole: continuate a dar retta al rigore, e dalla crisi non uscirete mai.
L’America, invece, sembra godere di ottima salute. Nel 2014 l’economia e’ cresciuta del 5%, i posti di lavoro sono aumentati di quasi 300 mila unità, superiori alle più rosee attese, i salari si sono incrementati del 2,2%. Tutto sembrerebbe confermare dunque una forte ripresa statunitense, tanto che si parla di possibile rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve a metà anno. Ma a guardare più in profondità non tutto fila così liscio. I disoccupati che hanno completamente rinunciato a cercare lavoro negli ultimi 6 anni è raddoppiato, attestandosi all’11,7%. Aumenta invece del 54% il numero dei part time, che sono pur sempre occupati, ma, appunto, a metà tempo: in giro per gli Stati Uniti ci sono oggi ben 4 milioni di lavoratori a tempo parziale che prima erano occupati a tempo pieno. E ancora: se si analizza l’indice medio dei prezzi al consumo, a fine 2014 segnava 45 punti d’incremento (in soli 4 anni) pari a un rialzo complessivo dei prezzi del 26,5% contro l’incremento del salario medio orario che nello stesso periodo è cresciuto solo del 8,5%. In pratica il cittadino medio americano dal 2008 ha perso 18 punti percentuali di potere d’acquisto. E aumenta anche l’indice di povertà generale, salito dal 12,5% del 2007 al 15% di fine 2012, mentre quella infantile ha toccato il 21,5%. Complessivamente, a fine 2014 erano oltre 45 milioni gli americani che vivono sotto la soglia di povertà: quasi il 15% della popolazione. In tutto questo si inserisce anche la questione del debito pubblico: quello Usa non ha nulla da invidiare al nostro, visto che supera i 18 mila miliardi di dollari e cresce di mille miliardi l’anno. In pratica: se il debito pubblico italiano pesa per 36 mila euro sulle spalle di ciascun cittadino, ogni americano sopporta un fardello pari a 56 mila dollari. Ed e’ ancora nulla a confronto del gigantesco debito globale, che oggi ammonta a 200 mila miliardi di dollari, cioè il 289% dell’intera ricchezza prodotto nel mondo. Il che rende praticamente un successo il nostro pur pesante rapporto debito – Pil, che ammonta ad “appena” il 131 per cento: e questo proprio grazie al rigore obbligato introdotto col sistema della moneta unica.
Insomma: se Atene piange, Sparta ha poco da ridere. Usa e Ue sono, entrambe, alle prese con modelli economici che, sia pure molto diversi, hanno in comune il fatto di non funzionare più come dovrebbero e come si vorrebbe. Il problema e’ che all’orizzonte non si e’ ancora affacciato un modello nuovo. Ammesso che ce ne siano: nessun economista, ancorché premio Nobel, ma anche nessun politico, ha saputo trovare la formula magica che assicuri crescita, equità e stabilità al pianeta. Si procede per ‘’pezze a colori’’, come si usa dire, e non sempre le pezze sono del colore giusto. A volte sembrano più belle quelle di Obama, altre volte le nostre. Finché non arriverà una nuova crisi a rimettere tutto in discussione. E attenzione: mentre ancora stiamo vivendo gli strascichi pesantissimi dell’ultima, quella del 2008, la prossima, secondo molti osservatori, e’ già alle porte, e sarà legata al (troppo) basso prezzo del petrolio. Lo stesso basso prezzo che, al momento, sta consentendo all’economia europea di riprendere a correre. Tutto cambia, ma la ciclicità delle crisi, quella, no, mai. Sembra anzi essere la sola matematica certezza, su qualunque sponda dell’oceano.
Nunzia Penelope