Stipendi bassi e nessuna prospettiva di carriera, ritrosia verso il lavoro agile e poca attenzione alla digitalizzazione. Sono questi, secondo Marco Carlomagno, segretario generale della Flp, la Federazione dei lavoratori pubblici, i mali della pubblica amministrazione.
Segretario c’è il giusto riconoscimento per il lavoro del pubblico impiego?
Stiamo forse assistendo a un cambio di sensibilità, ma il percorso è ancora lungo. Come afferma l’articolo 98 della Costituzione i dipendenti pubblici sono al servizio del paese. Dunque il pubblico non è una spesa, ma un investimento per il bene della collettività, perché offre una serie di prestazioni, dalla sanità alla scuola passando per il fisco, che devono essere efficienti e facilmente accessibili. Questo lo abbiamo visto molto chiaramente durante la pandemia, dove, accanto agli eroi della sanità subito dimenticati, la pubblica amministrazione ha tenuto in piedi il paese erogando, ad esempio, tutti i bonus per imprese e famiglie.
E dalla politica che sensibilità emerge?
Da vent’anni assistiamo a tagli strutturali, che minano l’operatività della PA e ci mettono al di sotto della media dei paesi europei, e alla politica delle piccole toppe. Serve, invece, una visione integrata e di ampio respiro di tutto il sistema pubblico, che questo governo non sta avendo. Se si vuole affrontare seriamente il problema della denatalità non si può pensare di gestirlo unicamente attraverso i bonus. Qui non si tratta dell’egoismo delle giovani coppie che non vogliono avere figli, ma della mancanza di servizi, asili nido, di stipendi e carriere inadeguati al costo della vita e alle aspettative, dell’innalzamento dell’età pensionabile che costringe i nonni ancora a lavorare, facendo venire meno l’aiuto che il tessuto familiare può dare. Ecco queste grandi sfide si vincono con una pubblica amministrazione valorizzata, capace di fornire servizi, creare ricchezza e che è un presidio di legalità in tutti i territori.
Che percezione hanno i cittadini della PA?
Secondo una nostra indagine, realizzata da Bigda, analizzando le conversazioni sui social e sul web, nei primi tre mesi del 2024 il 47% degli utenti ha espresso una valutazione negativa. Ogni mese sono oltre 300mila le conversazioni sulla PA in rete. Un’attenzione che si concentra prevalentemente nelle regioni del Sud. Gli elementi che generano questo sentiment negativo vanno dalla sanità ai servizi offerti dalla pubblica amministrazione, fino alla tutela dell’ordine pubblico. Ma c’è anche il tema della digitalizzazione nei pensieri del 40% degli utenti.
C’è poi anche lo scarso appeal della PA come possibile posto di lavoro.
Questo è un ulteriore problema da affrontare. La metà del concorsone rivolto esclusivamente al sud è andato deserto, e in tutti gli altri rinunciano il 20% dei candidati idonei. Una mancanza di appeal dovuta sostanzialmente a quattro motivi.
Quali?
Gli stipendi della pubblica amministrazione, per le competenze richieste, sono totalmente inadeguati. Se facciamo un raffronto con il privato, dove solo il 17% degli addetti ha una laurea, nel pubblico la percentuale sale al 48%, e la quasi totalità dei concorsi la indica come requisito. Sono numeri che non devono sorprenderci, perché su i 3 milioni e 200mila dipendenti pubblici, scuola, sanità e funzionari richiedono la laurea. E con salari inferiori del 20% rispetto al privato viene meno l’interesse a lavorare nel pubblico. Mancano, ancora, prospettive di carriera, sotto il profilo economico e dell’avanzamento. C’è poi una carenza cronica di formazione. Nel pubblico impiego si fanno, in media, 4 ore all’anno, molto spesso mentre si lavora, che non sviluppano nessuna competenza. E questo impatta in una realtà che vede un’età media di 57 anni e, conseguentemente, skills che devono essere aggiornate. C’è poi, infine, un’arretratezza nel processo di digitalizzazione, l’88% dei processi è ancora analogico, e di innovazione sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro.
Che ricetta proponete?
Bisogna rinnovare i contratti scaduti da dicembre del 2021 e dare avvio a una nuova stagione di assunzioni, che siano stabili e durature. Gli organici sono ormai agli sgoccioli e, come detto, serve la presenza di nuove competenze e professionalità necessarie non solo per gli adempimenti del Pnrr ma anche per il lavoro ordinario. L’incremento di un terzo degli addetti genererebbe un aumento del 10% del Pil. Bisogna poi spingere sulla semplificazione e la digitalizzazione dei processi.
Altra questione è quella del lavoro agile che non sembra trovare molto spazio nel pubblico.
Sullo smart working si sono fatti passi indietro da Brunetta in poi. Questo, perché, il management della pubblica amministrazione non riesce a pensare per obiettivi. Il lavoro agile scardina il mero adempimento e la prestazione misurata attraverso il tempo. Semplifica e snellisce, anche grazie all’innovazione tecnologica e l’intelligenza artificiale, l’intero sistema di erogazione dei servizi.
Quale contributo può dare l’IA?
L’intelligenza artificiale già potrebbe essere realtà. La pubblica amministrazione può accedere a tutto un insieme di dati necessari per rilasciare documenti o permessi al cittadino. Oggi deve essere l’utente a dare l’innesco per richiedere un qualcosa che gli spetta di diritto. Con l’intelligenza artificiale, invece, questo potrebbe avvenire in automatico. Non è solo una questione di avanzamento tecnologico, ma anche un salto di paradigma nel pensare la filosofia del lavoro. Uno studio Microsoft-HouseAmbrosetti afferma che l’applicazione dell’IA generativa su tutti i settori del mercato del lavoro italiano genererebbe, a parità di ore lavorate, un aumento di 312 miliardi di valore aggiunto annuo, pari al 18,2% del Pil. Nella pubblica amministrazione possiamo liberare 1,72 miliardi di ore o incrementare la ricchezza prodotta di 35 miliardi. Ovviamente è un processo da governare e non subire, anche per evitare i potenziali effetti negativi. Ma resta un’innovazione che dobbiamo fare nostra.
Tommaso Nutarelli