‘’Per la prima volta in Italia, stiamo affrontando in modo moderno il rapporto tra investimenti, strategie produttive, attività delle grandi multinazionali e salute dei lavoratori”. Fausto Durante, segretario della Fiom, commenta con il Diario del Lavoro la storica sentenza di Torino che equipara le morti sul lavoro all’omicidio volontario con dolo eventuale. Durante conosce bene il caso Thyssen: fu lui, come sindacalista, a firmare l’accordo che nel 2007 stabiliva la chiusura dell’impianto torinese e il trasferimento della produzione dell’acciaio a Terni. L’accordo è stato firmato pochi mesi prima dell’incendio che è costato la vita a sette operai.
Come si è passati da un serio piano industriale, condiviso da tutti, alla strage di dicembre 2007?
‘’L’ accordo venne approvato da tutti i lavoratori, che continuarono comunque a lavorare con impegno e serietà nella fabbrica, pur sapendo che sarebbe stata chiusa. L’azienda non ha invece avuto la stessa serietà, infatti ha preferito dirottare altrove, cioè a Terni, gli 800 mila euro che erano stati stanziati e che avrebbe dovuto investire per mettere in sicurezza gli impianti torinesi. Probabilmente, il loro il ragionamento è stato: spremiamoli fino in fondo come limoni, e poi facciamo le valige”.
Ma la Thyssen non è una aziendina da quattro soldi, è un gigante mondiale. Come spiega un ragionamento così gretto, per pochi spiccioli, rispetto al loro giro d’affari?
In Germania un incidente così non sarebbe mai potuto accadere, perché le normative sono molto rigorose. E se pure, disgraziatamente, fosse accaduto, la Thyssen sarebbe stata chiamata a risponderne. In Italia, invece, c’è una sorta di remissività nei confronti delle grandi imprese.
I manager tedeschi hanno forse approfittato dei controlli laschi di un paese come il nostro, dove c’è scarsa attenzione alla sicurezza, ma anche dove il lavoro ha un peso sempre più ridotto nei rapporti di forza. E dunque, hanno fatto le cose all’italiana.
Non trova eccessiva la sentenza torinese?
Non mi spingo a dire che l’amministratore delegato voleva assassinare i sette operai, ma sicuramente ha accettato senza battere ciglio la possibilità che la mancanza degli investimenti in sicurezza causasse delle morti. La sentenza di Torino ha sanzionato questa palese irresponsabilità.
Ora si parla della possibilità che la Thyssen abbandoni l’Italia. Lei ci crede?
Anche per un fatto di immagine, è bene che la Thyssen stia molto attenta alle decisioni che prenderà. Minacciare di andarsene suonerebbe come un ricatto: o mi date l’impunità, o io considero l’Italia non adeguata a investire e me ne vado. Ma l’impunità non può essere il metro per valutare la convenienza di un paese. In Germania, per esempio, le questioni della salute e della sicurezza vengono trattate con molta serietà in tavoli bilaterali dove sono presenti in egual numero e peso i rappresentanti delle aziende e dei lavoratori, in una logica di cooperazione. Perché se una fabbrica funziona bene, è un vantaggio per tutti. In ogni caso, non credo plausibile un addio all’Italia, che rappresenta il polo europeo della produzione di acciaio del gruppo.