Ne parla un rapporto di Eurofound – un’organizzazione governi-imprese-sindacati a livello europeo – di cui riferisce il sito lavoce.info. La base è un questionario a cui hanno risposto 27 mila aziende (fra industrie e servizi) in tutta Europa per illustrare se, e in quale misura, adottino al loro interno quelle che i guru del management chiamano “best work organization practices”. E l’Italia finisce in fondo alla classifica: il capitale frutta poco anche perché, da noi, si lavora male.
Quali sono queste “pratiche migliori di organizzazione del lavoro”? Il rapporto ne considera cinque: flessibilità degli orari, collegamento retribuzione-performance, formazione, autonomia decisionale dei lavoratori, coinvolgimento di lavoratori e sindacati nell’organizzazione del lavoro. Secondo gli esperti, sono l’ambiente sociale in cui meglio si esprime l’innovazione tecnologica. In Europa, il 30,5 per cento delle aziende applica orari flessibili. Il 26,1 per cento pratica la formazione interna dei lavoratori. Il 22,1 per cento lascia margini di autonomia decisionale alle squadre di dipendenti. Il 18,3 per cento è aperta alla consultazione dei lavoratori. La pratica cui si ricorre di meno in Europa è l’unica di cui, in Italia, fra le “best work organization practices”, si parli davvero. Il collegamento retribuzione-prestazione lavorativa è adottato, infatti, solo dal 17 per cento delle 27 mila aziende. Il rapporto si preoccupa anche di analizzare dove e quando queste pratiche vengono adottate non separatamente, ma come pacchetto. In base all’idea che siano, in un certo modo, complementari. O, più esattamente, che fra formazione, autonomia decisionale e partecipazione alla gestione ci siano influenze reciproche: è più facile assegnare autonomia decisionale a lavoratori con competenze qualificate e che sono d’accordo su quello che devono fare. Questa partecipazione può sposarsi bene con una gestione flessibile degli orari e delle buste paga.
In realtà, solo un’azienda europea su cinque adotta almeno due delle pratiche descritte. Meno del 10 per cento ne utilizza tre. Il grosso (35,64 per cento) si limita ad una. E quasi una su tre si tiene lontana da tutte e cinque. C’è, però, da chiedersi quali sarebbero le percentuali, senza la zavorra italiana. Perché se, a livello europeo, le aziende che non adottano nessuna delle best practices sono il 32,50 per cento del totale, in Italia, le imprese che nulla sanno e vogliono sapere di queste pratiche innovative sono il 51 per cento. Più sordi di noi a queste esigenze ci sono solo Malta, Turchia e Grecia. A leggerle a rovescio, le percentuali non migliorano. In Italia, solo il 17 per cento (una su sei) delle aziende adotta contemporaneamente almeno due di queste pratiche virtuose. Peggio di noi solo Malta, Turchia, Grecia, Ungheria e Cipro, paesi che è difficile vedere alla frontiera dell’economia del futuro.
E i cosiddetti paesi forti? Nei paesi scandinavi la percentuale di aziende che non adotta neanche un capitolo di un’organizzazione del lavoro innovativa oscilla intorno al 10 per cento. In Germania, siamo al 24 per cento, contro il nostro 51. Più o meno a livello dei tedeschi anche Francia e Gran Bretagna. E, simmetricamente, il confronto con gli altri grandi paesi europei sul numero di aziende che hanno intrapreso la strada di una nuova organizzazione del lavoro, è impietoso: in Germania, Francia e Gran Bretagna le aziende che hanno adottato due o più di queste “best practices” sono il 35-38 per cento del totale, più del doppio, rispetto al 17 per cento italiano. Nel resto del Nord Europa (Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda) che spesso guardiamo con invidia, sono più del triplo: dal 55 per cento in su(64 per cento in Danimarca, a dimostrazione che il modello danese non è solo la flexsecurity).