Di Maurizio Ricci
Stringere la cinghia sì, ma per quanto? La risposta non è per niente rassicurante: quattro o cinque anni di prezzi, salari, potere d’acquisto congelati, a voler essere ottimisti. Tanto, credibilmente, ci vuole come minimo, secondo un calcolo approssimativo ma convincente, perché l’Italia saldi il gap di competitività con la Germania che, secondo molti economisti, è il nocciolo della crisi attuale. Il vero nodo, a livello europeo, ancor più di un rilancio della domanda con i tagli dell’Irpef o ossigeno per le imprese, è, infatti, l’inflazione. Più esattamente, l’inflazione tedesca. Tanto più veloce la corsa dei prezzi tedeschi, tanto più rapida la convergenza con quelli italiani, nel frattempo congelati dall’austerità. Il ragionamento è semplice. Ammettiamo che i prezzi all’export dei prodotti italiani, in virtù dei maggiori costi, siano più cari del 10 per cento, rispetto agli analoghi prodotti tedeschi (in realtà è di più). Se l’inflazione italiana viene tenuta a zero e quella tedesca viaggia al ritmo del 5 per cento l’anno, il gap viene colmato in due anni.
Le premesse per questo riaggiustamento sono pessime. Fra il 2000 e il 2008 (cioè fra l’introduzione dell’euro e l’inizio della crisi) il costo del lavoro è cresciuto in Germania dell’1,8 per cento l’anno, in Italia del 3,1 per cento, secondo Eurostat. Alla fine, nel 2008, la competitività italiana si era ridotta di oltre il 12 per cento. Colmare il buco dipende dai differenziali di inflazione. Se l’Italia, con una politica di lacrime e sangue, tenesse la sua inflazione a zero (a gennaio era allo 0,6 per cento) e in Germania i prezzi salissero del 2,5 per cento (un ritmo che, probabilmente, terrebbe l’inflazione media europea intorno all’obiettivo ufficiale Bce del 2 per cento), il divario verrebbe chiuso entro il 2016. Sfortunatamente non è così. Anche la Germania viaggia sotto le regole dell’austerità. L’inflazione è solo all’1,2 per cento. A questo ritmo, l’Italia (sempre nell’ipotesi astratta di un’inflazione nazionale a zero) non recupererebbe il gap di competitività prima del 2019, ha calcolato un economista, Francesco Saraceno. La Grecia dovrebbe aspettare 11 anni, la Spagna 10, il Portogallo 6.
E le cose non sembrano affatto destinate a cambiare. Anzi, potrebbero peggiorare. Le ultime proiezioni della Banca centrale europea prevedono un’inflazione media nell’eurozona dell’1 per cento quest’anno, dell’1,3 per cento nel 2015 e dell’1,5 per cento nel 2016. A occhio, visto che la Germania è l’economia più grossa, questo significa un’inflazione tedesca ferma all’1,2-1,5 per cento. E, poiché l’inflazione italiana, in realtà, non è a zero, ma a 0,6 per cento, il differenziale sarà solo un punto o anche meno. Risultato? Nei fatti, per colmare il divario di competitività ci vogliono sei, sette anni di cinghia strettissima.
Quanto stretta? Saraceno ha provato a calcolare quale dovrebbe essere l’inflazione italiana (e degli altri paesi deboli) per colmare il divario entro il 2020, cioè in sei anni, secondo diverse ipotesi di inflazione tedesca. Se i prezzi tedeschi non aumentassero, in media, nei prossimi anni, più dell’1 per cento, l’Italia e gli altri paesi deboli dovrebbero accettare non l’inflazione zero, ma la vera e propria – temutissima, perché uscirne è difficile – deflazione. L’inflazione zero (0,14 per cento, per l’esattezza) sarebbe necessaria per colmare il divario di credibilità, nel caso di un aumento dei prezzi tedeschi come quello attuale, 1,2 per cento. Se l’inflazione tedesca arrivasse al 2 per cento, i prezzi italiani potrebbero crescere quasi dell’1 per cento.