Il grande risiko delle tlc è in moto. Da un lato lo scorporo di Tim, il piano industriale e l’agitazione sui mercati, dall’altro la trattativa tra Fastweb e Vodafone. In tutto questo una politica per anni troppo disattenta a un settore strategico per la trasformazione digitale del paese. Facciamo il punto con il segretario generale della Fistel-Cisl, Alessandro Faraoni.
Segretario la partita di Tim si sta giocando su più tavoli. Che cosa può dirci?
La situazione di Tim si sta sviluppando su due direttrici: la trattativa con il governo per lo scorporo tra la rete e i servizi e le garanzie occupazionali, e quella con l’azienda per il piano industriale.
Sulla prima a che punto siamo?
Come Cisl abbiamo sempre manifestato i nostri dubbi su un’azienda non verticalmente integrata, ma preso atto ci siamo messi a disposizione per dialogare con il governo ed azienda nel concertare e trovare soluzioni. Vale la pena ricordare che la privatizzazione ha portato questa azienda ad oggi ad avere un debito immenso e i politici che oggi si lamentano dell’operazione di scorporo sono gli stessi che si sono girati dall’altra parte nel passato e va detto che al momento questa operazione era la meno peggio. L’azienda non vive un momento facile. Ha accumulato un debito di 26 miliardi e se non si chiamasse Tim avrebbe già presentato i libri contabili al giudice. Quindi i 22 miliardi messi sul tavolo da KKR sono un boccata d’ossigeno. Quello che è successo in borsa lo imputo molto a manovre speculative che mirano a far saltare l’operazione. A memoria ricordo che ogni qualvolta abbiamo cambiato ad, in 3 anni ne abbiamo sostituiti 5, i risultati sono stati sempre peggiorativi e se qualcuno pensa che per motivi personali sia utile far saltare anche l’attuale amministratore delegato si assumerà la responsabilità della definitiva caduta di Tim.
C’è poi il nuovo piano presentato dal gruppo.
Il governo non ha rifinanziato il contratto di espansione, quindi stiamo discutendo per l’applicazione di una solidarietà difensiva. La compressione dei costi che l’azienda vorrebbe mettere in campo riguarda il premio di risultato, e tutta una serie di istituti legati al welfare. La Fistel sta puntando verso un eventuale percorso di solidarietà allargata, perché finché non ci sarà il closing, presumibilmente tra giugno e luglio, si deve arrivare allo stesso accordo per chi opera nella rete e chi nei servizi. C’è sicuramente un tema di tutela occupazionale e su questo abbiamo scritto all’esecutivo.
Temete ripercussioni anche per l’indotto?
Ci sono timori per la tenuta di molti call center che ricevono le commesse da Tim. Se il gruppo va verso una riduzione dei costi, potrebbe decidere di internalizzare alcune commesse, con ricadute per l’indotto. Inoltre i call center vivono una situazione di forte compressione dei costi e di dumping contrattuale. Anche nelle gare con committenti pubblici si segue la logica del massimo ribasso. E questo è possibile in quelle realtà dove magari non si applica il contratto delle tlc, ma quello multiservizi o della Cisal.
Dunque che cosa chiedete?
Dalle istituzioni un maggior controllo quando ci sono le gare. L’applicazione del contratto delle telecomunicazioni e sostenere quei call center realmente strutturati. Assistiamo alla proliferazione di molte realtà, che vivono grazie alle prime commesse ma poi non hanno futuro. Queste abbassano la qualità dell’intero sistema. In quest’ottica, visto che il mondo dei servizi avrà un’importanza crescente, anche i soldi del Pnrr devono essere investiti dove c’è terreno fertile.
I sindacati si stanno muovendo in modo compatto sul fronte Tim?
Cerchiamo di portare avanti un percorso comune, anche se ci sono idee e sensibilità diverse che emergono, per esempio rispetto alla opportunità di trattare con l’azienda oltre che col governo. Per la Cisl l’obiettivo principale rimane quello di contrattare e non fare politica. Finché un’azienda è disponibile al dialogo noi siamo sempre pronti a sederci intorno a un tavolo, senza nessuna limitazione ideologica. Ragionamenti diversi devono essere fatti quando manca questa disponibilità. Tim è stata molto chiara nel dirci che andrà avanti anche senza un accordo con i sindacati. E lasciare campo a un’azienda di disporre liberamente di premio di risultato o welfare, vorrebbe dire non aver fatto bene il proprio mestiere.
C’è poi la fusione tra Vodafone e Fastweb.
La possibile fusione rappresenta quella tendenza che caratterizzerà il prossimo futuro delle tlc: il consolidamento. Vodafone è un gruppo saldo sul mobile, mentre Fastweb lo è sulla fibra. Insieme attirano il 35% del mercato italiano e possono presentarsi come un vero competitor nei confronti di Tim.
Quindi si tratta di una fusione inevitabile?
Vodafone vuole lasciare il mercato italiano per concentrarsi su quello inglese e tedesco. Inoltre la trasformazione digitale, l’ingresso dell’intelligenza artificiale richiedono competenze forse ancora non sempre rintracciabili sul mercato, ma che un gruppo solido può plasmare al suo interno.
Non ha paura che questa fusione provochi dei contraccolpi per i lavoratori?
Certamente. Il percorso che le ho descritto ha dei benefici da un punto di vista concorrenziale e di sistema, ma come sindacalista sono preoccupato. In Vodafone lavorano all’incirca 5mila e 500 persone, in Fastweb 3mila e 200. Sono numeri molto distanti da quelli di Tim, ma chiaramente alcune figure professionali potrebbero sovrapporsi. Per questo è importante che il sindacato accompagni questa fusione.
Perché Vodafone non è più interessata al nostro mercato?
In Italia c’è una fortissima concorrenza, che ha generato un corsa alla riduzione dei costi, mentre gli investimenti sono stati sempre alti. Questo ha comportato una perdita di 14 miliardi per gli operatori negli ultimi 12 anni. È solo una delle debolezze delle nostre tlc.
Quali sono le altre?
Con la troppa concorrenza si moltiplicano gli operatori, quando invece si dovrebbe andare verso una loro riduzione come negli altri paesi. Inoltre i gruppi che hanno investito nelle frequenze del 5g non sono stati sufficientemente supportati in termini di risorse e di infrastrutture dalla politica. E quando queste erano presenti sono state affidati a società estere. Così come si dovrebbe pretendere che colossi del calibro di Google o Amazon, che sfruttano le tlc, facciano anch’essi la loro parte.
C’è attenzione da parte della politica nei confronti del settore?
Direi molto poca, e da parte di ogni schieramento. C’è ancora l’idea che le tlc siano il settore con le galline dalle uovo d’oro, dove arricchirsi, ma non è più così. C’è molta poca coerenza, sintomo che le affermazioni fatte hanno un valore puramente elettorale, ma nulla di più. I partiti che oggi si indignano per lo scorporo di Tim erano gli stessi che qualche hanno fa la sostenevano perché così voleva l’Europa.
E il governo come si sta muovendo?
Siamo ancora al livello di palliativi, ma dei piccoli passi in avanti sono stati fatti. Sempre su Tim la decisione di applicare la Golden Power sulla rete è una decisione giusta. Così come l’innalzamento dei limiti elettromagnetici permetterà agli operatori una maggiore copertura, senza dover installare nuove celle e quindi non dovendo mettere in campo ulteriore risorse.
Tommaso Nutarelli