Si moltiplicano, in questi giorni, i bilanci sul pontificato di papa Francesco. Per lo più si tratta di riflessioni che valutano i dodici anni della sua permanenza sul soglio di Pietro in termini positivi, sottolineando la novità dello stile, i temi inclusivi da lui promossi, il suo successo mediatico. Poche sono le voci discordanti, almeno in Italia. Nella maggior parte dei casi segnalano il fatto che il Santo Padre, nel corso del suo magistero, ha richiesto ai fedeli più un impegno pratico che un approfondimento della fede, ha valorizzato i risultati esteriori piuttosto che l’intenzione con cui erano acquisiti. D’altronde, proprio in questo predominio del fare, papa Francesco si è rivelato un Pontefice compiutamente cattolico, e disinteressato a quell’attenzione per la sensibilità protestante, al fine di un effettivo confronto con essa, che aveva caratterizzato, anche per motivi di provenienza geografica, la riflessione del suo predecessore Benedetto XVI.
Francesco, in altre parole, non è stato un papa della fede, ma un papa delle opere. Ha ritenuto che fosse la via della carità quella da seguire per rilanciare un cattolicesimo certo ben presente nel mondo – in espansione, anzi, in Asia e in Africa – sebbene in grave arretramento nella vecchia Europa. A aderire a questa convinzione era spinto dalla sua provenienza geografica. Il fatto di venire “dalla fine del mondo” gli permetteva di vedere le cose da una prospettiva particolare. Il centro del globo e quello del suo interesse non erano l’Europa, e tantomeno gli Stati Uniti, che alcuni aspetti della cultura europea hanno portato all’estremo per poi rivolgersi di nuovo a essa al fine di colonizzarla. L’ottica di papa Francesco era diversa. Non solo partiva dal sud, ma era decentrata. Poteva favorire un approccio multipolare ai problemi del mondo.
Ciò si rifletteva anche nel linguaggio che secondo lui doveva essere usato per comunicare la fede. Non si poteva far riferimento solo alle categorie occidentali. Bisognava superare la dialettica fra ellenizzazione del cristianesimo e cristianizzazione dell’ellenismo: fra la necessità di manifestare in concetti greci, capaci di raggiungere tutti, il messaggio di salvezza annunciato da Gesù nella sua lingua particolare, l’aramaico, e la necessità di modificare gli stessi significati delle vecchie parole greche per renderle adatte a esprimere la novità dell’annuncio. Questo, in verità, era ancora il problema che aveva mosso la riflessione e il progetto pastorale di Benedetto XVI. Ma tale approccio non poteva essere utilizzato per diffondere il verbo cristiano in Cina o in Africa. A meno che non si volessero praticare – posto che fosse ancora possibile – quelle forme di colonialismo i cui esiti papa Bergoglio, in Argentina, aveva chiaramente sotto gli occhi.
D’altronde il messaggio del Vangelo è rivolto a tutti gli esseri umani, può essere compreso da tutti gli esseri umani e va annunciato a tutti gli esseri umani. Ecco allora che, per farlo, la strada obbligata è quella dell’azione, della pratica, della testimonianza. Si è cristiani non perché si pensa da cristiani – o si giudica da cristiani: e, in effetti, chi siamo noi per giudicare? –, ma perché ci si comporta da cristiani. Mettersi al servizio dei fratelli è il modo migliore per dimostrare la propria scelta religiosa. Non si tratta, come si vede, di una posizione “politica”, anche se si può ben comprendere perché essa sia stata accolta favorevolmente in certi contesti e combattuta in altri. Il riferimento all’ambito sociale, così come l’interesse per la dimensione ecologica e la lotta alle diseguaglianze, sono solo veicoli, strumenti, per diffondere il Vangelo e per promuovere in maniera riconoscibile un modello cristiano di vita a livello globale.
Questa strategia scelta da papa Francesco ha comportato, però, una serie di problemi. Due, soprattutto, sono quelli che voglio menzionare. Il primo riguarda il forte ridimensionamento di un’elaborazione culturale in ambito cristiano e il venir meno di una riflessione volta a confrontarsi cristianamente con quanto il mondo promuove. Se vige il primato della prassi, se si è cattolici per quello che si fa, non serve star troppo a pensare: la cultura si misura con le opere. Peccato che ciò non sia sempre vero: tanto più in un mondo in cui è la mentalità comune, rafforzata dalle tecnologie, a dare senso alle cose che si fanno. Il rischio dunque è che, senza un adeguato approfondimento culturale, lo stesso agire cristiano perda il proprio orientamento. Di più. Che non sia distinguibile da un agire magari altrettanto buono, magari eticamente connotato, ma non motivato religiosamente.
La seconda questione che l’approccio seguito da papa Francesco nel suo pontificato lascia irrisolta riguarda poi la modalità che è propria di questo agire buono. Cristianamente esso dev’essere improntato alla misericordia, all’amore senza contraccambio, all’accoglienza incondizionata. La parabola del figliol prodigo e quella del buon samaritano sono gli esempi migliori di tale atteggiamento. Certo. Ma la sua adozione in forme così assolute non tarda ad avere controindicazioni: anche e proprio sul piano sociale. Ciò che rischia di venir mortificato, infatti, è la fame e sete di giustizia: quella fame e sete che hanno tutti, e rispetto a cui tutti hanno il diritto di essere saziati.
La giustizia, insomma, rischia di essere sacrificata a favore della carità. Si tratta di un’ulteriore conferma del fatto che il magistero di papa Francesco, pur aprendosi all’azione in ambito sociale, è stato un magistero non già politico, bensì religioso. Politiche sono state semmai alcune conseguenze dell’agire richiesto ai credenti. Ma questo agire viene valutato sulla base di una coerenza con il Vangelo, non già a partire da ciò che il mondo di volta in volta richiede.
Adriano Fabris