di Maurizio Ricci
Il costo del lavoro? Non è il problema. Da decenni, ormai, salario, busta paga, costo unitario del lavoro, con estensione fino al cuneo fiscale segnano il perimetro entro il quale partiti, parti sociali, economisti ed ideologi si scontrano sulle ricette per rilanciare l’economia italiana. Uno scontro che ha finito per assorbire e ammutolire qualsiasi altra analisi. E’ probabile, però, che abbiamo soprattutto perso tempo. A dirlo, sono i custodi dell’ortodossia economica del Fondo monetario internazionale. Una ricerca di Andrew Tiffin (titolo: “Produttività europea, innovazione e competitività: il caso italiano”) rovescia, infatti, più di una verità precostituita.
La crisi esplosa in Europa nel 2008 è, alla radice, una crisi di competitività fra le economie meridionali e le più efficienti economie del Nord Europa. Ma se, nel caso di altri paesi, come Spagna e Portogallo, questa competitività ruota, probabilmente, intorno al costo del lavoro e, dunque, misure di deflazione selvaggia, con taglio dei salari e, poi, dei prezzi, possono portare, nel bene e nel male, qualche beneficio, questo non vale per l’Italia che, in tema di competitività, al costo del lavoro ha poco da rimproverare. Come arriva Tiffin a questa conclusione? I dati sul costo del lavoro per unità di prodotto mostrano, in effetti, che l’Italia, negli ultimi venti anni, ha perso costantemente posizioni. Ma allora, ribatte Tiffin, come è possibile che l’Italia, nel 2000 sesta nel mondo per valore aggiunto del settore manifatturiero, nel 2010 sia migliorata salendo al quinto posto, a ridosso della Germania? Prima per il tessile, seconda al mondo per i macchinari (non elettronici)? Probabilmente, osserva Tiffin, le statistiche sul costo del lavoro non sono l’indicatore giusto. Se, invece che ai costi si guarda, ad esempio, agli indicatori costruiti sui prezzi, la posizione italiana sembra assai meno precaria. Tiffin prova a calcolare in modo più compiuto la quota di mercato dell’export italiano nel commercio mondiale e verifica che l’Italia ha tenuto botta con Francia e Usa e, fino al 2007, anche con la Germania.
Insomma, la competitività sui prezzi ha potuto scavalcare la zavorra del costo del lavoro perché, nell’economia moderna, i salari pesano sempre meno. E possono mandare anche segnali contrastanti. Un’azienda, ad esempio, che si ristruttura e aumenta la qualificazione della sua forza lavoro, pagherà salari più alti e vedrà salire il costo del lavoro, pur essendo, paradossalmente, più competitiva di prima. Più in generale, il monte salari è una voce meno importante e, nel caso italiano, ha potuto fruire di condizioni favorevoli perché, in linea di principio, le aziende di casa nostra, per i settori in cui operano, si trovano a importare più facilmente semilavorati da altri paesi a bassa inflazione, mentre, ad esempio, per le aziende tedesche accade il contrario.
Invece di collegare il ristagno piombato sull’economia italiana a metà anni ’90 al costo del lavoro, all’arrivo dell’euro e all’impossibilità di continuare con le svalutazioni competitive della lira, dunque, Tiffin lo lega, piuttosto, alla rivoluzione informatica che esplode proprio in quegli anni e che l’Italia non ha saputo cogliere. In questo senso, il paese è in mezzo al guado. La qualità dell’export italiano, infatti, resta altissima. Secondo un’altra ricerca, sempre del Fmi, è mediamente una volta e mezza superiore alla media mondiale, in tutti i settori in cui siamo presenti. Ma questa qualità non si innesta su strutture aziendali e industriali adeguate ai tempi. Le aziende italiane sono troppo piccole e troppo poco innovative. E, nel mondo di oggi, sono difetti pericolosi. Tiffin sostiene che, rispetto ad altri paesi, uno dei punti di forza dell’export italiano era il ruolo svolto dai cosiddetti “fornitori specializzati”, in grado di adeguarsi agli interessi del cliente. Quasi sempre piccole e medie aziende. Ma, oggi, quel ruolo, nell’economia mondiale viene riempito meglio dalle grandi aziende, in grado di mettere in gioco la forza del proprio marchio, la facilità di finanziarsi, la gestione agevole, su scala mondiale, delle catene di fornitori. Più ancora della riforma del mercato del lavoro, sembra dire Tiffin, servirebbero, soprattutto, riforme che aiutino le imprese a diventare più grandi.