Bronislaw Geremek è stato uno storico polacco. Consigliere di Lech Walesa, in Solidarnosc e nel successivo impegno dopo la caduta del regime comunista, ebbe come bussola di riferimento i suoi studi sulla miseria e sulla carità. “La pietà e la forca”, “I bassifondi di Parigi nel medioevo”, “La stirpe di Caino”, “Mendicanti e miserabili nell’Europa moderna”: sono i titoli dei libri più noti. Era convinto che il fenomeno degli emarginati avesse subito, dai secoli bui ai giorni nostri, un’ininterrotta e progressiva accelerazione. “Nell’età moderna – ha scritto- il ritmo di degradazione sociale diventa più rapido e più vigoroso. Sembra che la ricchezza generi la povertà; accanto a una rapida accumulazione di ricchezze abbiamo la pauperizzazione materiale di larghe masse della popolazione; accanto all’ arricchirsi di gruppi sociali e di singoli individui, l’impoverimento crescente delle masse”.
Non poteva prevedere che il Coronavirus avrebbe agito come un moltiplicatore esponenziale di questo processo. In un anno, le già immense faglie delle disparità reddituali hanno provocato un terremoto i cui sussulti continuano a generare precarietà e disperazione. Poveri all’improvviso. Il rapporto Censis fotografa una situazione agghiacciante: dal 9 marzo 1,5 milioni di italiani sono passati dalla condizione di benestanti a quella di persone in difficoltà e altri otto milioni di nuclei familiari, che prima se la cavavano, ora vivono un significativo disagio economico. In primis, gli imprenditori, i liberi professionisti, i commercianti, gli artigiani.
La “zona rossa del lavoro” è pronta ad esplodere, quando finirà il divieto dei licenziamenti. Sono un milione e mezzo gli “scoraggiati”, il 60 per cento donne, coloro che un’occupazione nemmeno la cercano più. Poi c’è “l’universo degli scomparsi, quello dei lavoretti, del lavoro casuale, del lavoro nero”. Almeno cinque milioni, si sono “inabissati senza rumore”, sprofondati in un girone infernale “dal quale non riescono nemmeno a mandare segnali”. Gli invisibili, per lo più giovani. Un recente articolo della rivista Left denuncia che non fanno nemmeno notizia, sui giornali e in tv: “L’ esclusione mediatica è specchio e anche ulteriore causa di esclusione sociale”.
“Il problema non è più la povertà, ma l’impoverimento”, ha ammonito l’Avvenire, in un editoriale che accompagnava il titolo di prima pagina dedicato alla pandemia sociale. La Caritas lancia l’allarme: si allungano le file per il cibo, da soli non ce la facciamo. L’elemosina può solo attenuare il senso di colpa dei garantiti ma non si può svuotare il mare della disperazione con il cucchiaio della benevolenza. Ecco che torna alla mente Geremek. E con lui il concetto basilare di solidarietà nell’impegno sindacale.
Roberto Benaglia, il nuovo segretario generale della Fim, ha senza dubbio questa cultura ben impressa nel suo dna. L’intervista che ha rilasciato sul Diario del Lavoro al direttore Massimo Mascini, ne costituisce la prova evidente. La povertà, afferma, non è un problema dei metalmeccanici che hanno la cassaintegrazione, “ma non possiamo rimanere inerti, dobbiamo muoverci anche su questo campo”.
Ed ecco che nell’era del Coronavirus torna con ineludibile attualità il concetto del sindacato soggetto politico. “Un sindacato che non fa politica è subalterno o corporativo”, non si stancava di ripetere Pierre Carniti. Un teorema che non è solo figlio del cattolicesimo democratico ma che permea anche la migliore cultura della Cgil, da Giuseppe Di Vittorio a Bruno Trentin, passando per Vittorio Foa. Uscire dalla cittadella dei contratti e fare irruzione nella terra desolata dei nuovi accattoni.
Il sindacato dei poveri.
Marco Cianca