Un lavoratore è stato licenziato dall’azienda perché da un accertamento a posteriori è emerso che aveva fatto uso della posta elettronica aziendale per scopi personali nonostante il divieto esplicito aziendale. Il tribunale ha dichiarato legittimo il licenziamento. Il lavoratore ha proposto appello. La corte di appello di Milano ha confermato la sentenza avente ad oggetto le problematiche connesse ai controlli a distanza dell’attività lavorativa, ritenendo legittimo il comportamento del datore di lavoro, con la motivazione che si riporta.
“L’art. 4 dello statuto dei lavoratori vieta le apparecchiature di controllo a distanza e subordina ad accordo con le r.s.a. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro l’installazione di quelle apparecchiature, rese necessarie da esigenze organizzative e produttive, da cui può derivare la possibilità di controllo. La giurisprudenza della Suprema Corte ritiene che detto art. 4 “[faccia] parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore…. sul presupposto – espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro” (Cass. 17.07.07 n. 15982). La garanzia procedurale prevista per impianti ed apparecchiature ricollegabili ad esigenze produttive contempera “l’esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore di lavoro, o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi”. La possibilità di tali controlli si ferma, dunque, dinanzi al diritto alla riservatezza del dipendente, al punto che la pur insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti “non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.
Tale esigenza … non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei c.d. controlli difensivi ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino … l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro”. In tale ipotesi, è stato precisato, si tratta di “un controllo cd. preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui all’art. 4, comma 2″ (Cass. 23.02.10 n. 4375), così correggendosi una precedente impostazione che riteneva in ogni caso legittimi i c.d. controlli difensivi, a prescindere dal loro grado di invasività (Cass. 3.04.02 n. 4746). In applicazione di questi principi, la giurisprudenza della Suprema Corte ha ritenuto correttamente motivata una sentenza di merito che aveva considerato alla stregua delle apparecchiature di controllo vietate (ove non fatte oggetto della procedura di validazione prevista dall’art. 4, e. 2) i programmi informatici che consentono il monitoraggio dei messaggi della posta elettronica aziendale e degli accessi Internet, ove per le loro caratteristiche consentano al datore di controllare a distanza ed in via continuativa durante la prestazione, l’attività lavorativa e il suo contenuto, per verificare se la stessa sia svolta in termini di dirigenza e di corretto adempimento, sotto il profilo del rispetto delle direttive aziendali” (Cass. n. 4375 del 2010, cit.).
Nel caso che oggi ci occupa, il giudice di merito, dopo aver accertato quali siano state le concrete modalità attraverso le quali il datore di lavoro ha acquisito il testo dei messaggi di posta elettronica scambiati dall’appellante con soggetti estranei al ristretto ambito di diffusione delle notizie delle quali egli era in possesso, poi posti alla base della contestazione disciplinare, ha accertato che il datore ha compiuto il suo accertamento ex post, ovvero dopo l’attuazione del comportamento addossato al dipendente, quando erano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva. Ad avviso del Collegio, tale fattispecie è estranea al campo di applicazione dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Nel caso di specie, infatti, il datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali che prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed era, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) dagli stessi posti in essere. Il c.d. controllo difensivo, in altre parole, non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma era destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo la stessa sfera di riservatezza presso i terzi. In questo caso è pienamente legittimo l’esercizio del diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, che è costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria sicurezza e riservatezza nei confronti di intrusioni esterne.
Questa forma di tutela egli poteva giuridicamente esercitare con gli strumenti derivanti dall’esercizio dei poteri derivanti dalla sua supremazia sulla struttura aziendale. Tale situazione, ad una lettura attenta, è già esclusa dal campo di applicazione dell’art. 4 dalla sopra citata giurisprudenza (che già esclude dai controlli difensivi vietati quelli aventi ad oggetto la tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, v. Cass. n. 15892 del 2007 cit., n. 2722 del 2012, n. 22662 del 2016). Si deve infine rilevare che il controllo della posta elettronica aziendale da parte del datore di lavoro, pur rappresentando un’ingerenza nel diritto alla vita privata, risulti pienamente compatibile con la tutela prevista dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo se di portata limitata e proporzionale. Tale principio è stato recentemente affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in un caso in cui un dipendente di una società privata era stato licenziato per aver usato per fini personali una mail aziendale appositamente creata dalla società per rispondere ai quesiti dei clienti. Per i giudici di Strasburgo, le mail rientrano nel diritto alla corrispondenza e, quindi, sono tutelate dall’articolo 8 della Convenzione che assicura il diritto al rispetto della vita privata, ma nel caso di specie, l’ingerenza deve essere ritenuta proporzionale, e dunque legittima, posto che si è trattato di un account di posta aziendale e non personale (CEDU, 12-1-2016, n. 61496).”
Sentenza corte di appello di Milano sezione lavoro n. 863/2017, giudice relatore dottor Giovanni Casella
Biagio Cartillone