Al di là delle ricadute politiche, la vicenda relativa ad Andrea Giambruno, il conduttore televisivo compagno della premier Giorgia Meloni, pone diverse questioni di diritto del lavoro. Una, anzitutto: ci sono gli estremi perché Mediaset, l’azienda per cui il giornalista lavora, possa licenziarlo per quanto accaduto?
Ebbene, alcuni dei comportamenti oggetto dei fuori onda trasmessi da “Striscia la Notizia” e poi ripresi dagli organi di stampa, in particolare gli episodi che in senso lato potremmo definire – per quel che appare – di molestia, se confermati nel loro contenuto oggettivo e nell’effettiva intenzione non meramente goliardica del loro autore, potrebbero a mio avviso assumere gli estremi del fatto grave passibile di licenziamento in tronco per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice Civile.
Tuttavia vi è un aspetto di carattere formale che non può essere trascurato: la legge prevede che il licenziamento per colpa (e qualunque sanzione disciplinare) sia preceduto dalla formale contestazione scritta al lavoratore degli addebiti che gli si intendono muovere (con la concessione di un termine a sua difesa non inferiore a cinque giorni). La stessa legge dispone l’onere per il datore di lavoro, a pena di inefficacia del successivo provvedimento disciplinare, di muovere la contestazione non appena i fatti di cui si tratta sono stati accertati. L’obiettivo è evitare che comportamenti in un primo momento tollerati, tempo dopo, venuta meno l’esigenza di opportunità che aveva indotto il datore di lavoro a soprassedere, vengano tardivamente “riesumati”. Insomma, la reazione datoriale, per potersi definire tale, e considerarsi quindi genuina, deve essere tempestiva. Nel nostro caso, a quanto riferiscono gli organi di stampa, gli episodi in ipotesi rilevanti risalirebbero a prima della scorsa estate e, se così fosse, verosimilmente sarebbero stati contestualmente compiutamente conosciuti dall’azienda, la quale, in tal caso, non potrebbe ora più avvalersene ai fini disciplinari.
Altro aspetto da indagare è se la scelta di mantenere il giornalista – per il momento – in redazione possa avallarne il comportamento. La scelta, in realtà, sembrerebbe confermare lo scenario che analizzavo in precedenza. L’azienda, non potendo legittimamente licenziare, attribuisce al lavoratore – ritenendo probabilmente, a torto o a ragione, di tutelare con ciò la propria immagine – una diversa posizione professionalmente equivalente ancorché “dietro le quinte” del programma televisivo e non più di conduzione del medesimo. Una scelta forse obbligata, dunque, ma perfettamente legittima. In simili casi, peraltro, le aziende hanno comunque modo di evidenziare, anche formalmente, ai propri dipendenti la necessità di attenersi per il futuro a comportamenti consoni e di rammentare loro quali siano le conseguenze in cui, diversamente, costoro incorrerebbero.
Sussistono, infine, alcuni profili, più specificamente inerenti alla professione di giornalista svolta da Andrea Giambruno. Il primo: tali comportamenti violano il codice di condotta dei giornalisti? L’art. 48 della Legge n 69/1963 (legge professionale dei Giornalisti) stabilisce che “Gli iscritti nell’Albo … che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine, sono sottoposti a procedimento disciplinare” ed il decoro e la dignità della professione, come la reputazione propria e dell’Ordine professionale, ritengo possano essere lesi oltre che nell’esercizio della professione in senso stretto (banalmente, la consapevole pubblicazione di una notizia falsa), anche da comportamenti, per così dire, “privati”, quindi non strettamente inerenti, e tuttavia che assumono rilevanza pubblica, talvolta con forte impatto mediatico, proprio siccome posti in essere non in un ambito privato ma durante l’esercizio dell’attività professionale. La definizione dell’ambito di applicabilità, ossia l’interpretazione della norma che ho citato, come della rilevanza disciplinare in sé del comportamento, compete, peraltro al Consiglio dell’Ordine cui il giornalista è iscritto.
A quel punto, dunque l’Ordine, valutata la rilevanza del comportamento, deve promuovere il procedimento nel termine di prescrizione di cinque anni dal fatto, comunicando all’incolpato l’addebito e l’avvio del procedimento stesso che deve avere luogo in suo pieno contraddittorio e prevede espressamente la sua obbligatoria audizione. Le sanzioni vanno dall’avvertimento (per fatti di lieve entità) alla censura (per fatti più gravi), alla sospensione da un minimo di due mesi a un massimo di un anno (per fatti che abbiano compromesso la dignità professionale), fino alla radiazione (per fatti che abbiano compromesso la dignità professionale in modo così grave da rendere non compatibile la prosecuzione dell’esercizio della professione di giornalista).Il provvedimento sanzionatorio deve in ogni caso essere congruamente motivato.
Luciano Racchi, avvocato partner di RPLT RP Legalitax