Per far ripartire il paese, puntare sulle aziende consolidate da anni può servire a poco. La vera scommessa vincente sono le aziende giovani, meglio di tutte le start-up. Un database appena messo a punto dall’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, conferma, infatti, che sono, non da oggi, le aziende giovani a creare posti di lavoro, mentre in quelle più vecchie il saldo fra posti di lavoro creati e distrutti è negativo. Dal 2000 ad oggi, anno dopo anno, la creazione netta di posti di lavoro (cioè le assunzioni meno licenziamenti, pensionamenti, mancato turnover) viene tutta da aziende con meno di 5 anni di vita, mentre, nelle imprese (manifatturiere, edili, in generale non finanziarie) più anziane gli organici si sono ristretti. Nell’arco del 2010-2011, ad esempio, le imprese giovani hanno complessivamente accresciuto l’occupazione del 2 per cento, controbilanciato dal meno 2,2 per cento che origina nelle aziende consolidate. Letto in un altro modo, il dato è ancora più squillante. Nell’universo delle aziende con meno di 250 dipendenti, le imprese con meno di 5 anni di vita, rappresentano meno del 20 per cento dell’occupazione, ma hanno creato il 40 per cento di tutti i nuovi posti di lavoro. Al contrario, le aziende più vecchie, che sfiorano il 50 per cento dell’occupazione complessiva, hanno contribuito alla creazione solo di un terzo dei nuovi posti di lavoro.
Chi cerca un posto, insomma, ha più chances se si presenta ad un’azienda che sta aprendo i battenti, piuttosto che se va a bussare alla porta di un’azienda navigata. Ed emerge qui il prezzo che l’Italia paga ad un mondo delle imprese sempre più asfittico. Fra i paesi sviluppati, solo Giappone e Finlandia hanno una preponderanza più marcata dell’Italia di imprese mature. Sia a livello di start-up (meno di 2 anni), che di aziende giovani (3-5 anni) siamo, come quota sul totale delle imprese, indietro rispetto a tutti gli altri. E scivoliamo sempre più indietro. In realtà, il formicolio e il fermento dei primi anni 2000, quando il boom delle dot.com era ancora vicino, si è spento un po’ dappertutto. La quota delle aziende con meno di 2 anni di vita stava diminuendo già prima della crisi del 2009. Ma, in Italia, rischia di ridursi ai minimi termini: dall’inizio dello scorso decennio si è dimezzata, passando al 10 per cento.
Il prezzo lo paghiamo in posti di lavoro, ma anche in quel fattore di sviluppo, oggi imprescindibile, che è la capacità di innovazione. Strangolata dalla mancanza di fondi. Lo stesso database dell’Ocse ci avverte che, negli Usa, i finanziamenti che affluiscono alle giovani aziende che presentano brevetti sono il doppio di quelli che si registrano in Francia e in Germania. Ma il quadruplo di quello che avviene in Italia. Tuttavia, il paradiso imprenditoriale americano non va mitizzato oltre il dovuto. Non tutte le aziende nate nel garage di casa, come Microsoft e Apple, sono decollate con il credito facile. Uno studio della Federal Reserve di Atlanta dipinge le difficoltà delle aziende americane più giovani ad accedere alle stesse opportunità di credito delle aziende più vecchie. La favola del giovanotto che entra in banca con in tasca poco più di un foglio di carta con un disegno e un diagramma e ne esce con i soldi per diventare un gigante dell’economia mondiale può essere sgonfiata. Negli ultimi due anni, dice lo studio, solo metà delle aziende americane con meno di sei anni di vita è riuscita ad ottenere un prestito e solo in un terzo dei casi chi ci è riuscito ha avuto tutto quello che aveva chiesto. Ma, nella maggior parte dei casi, i soldi ottenuti non sono arrivati con una normale apertura di credito. I nuovi imprenditori hanno dovuto puntare, piuttosto, sulle anticipazioni su carta di credito, come se dovessero comprare un frigo per casa. E una buona quota di finanziamenti, dice lo studio, è arrivato da prestiti di familiari ed amici.
Maurizio Ricci