A febbraio i lavoratori dell’Ifoa (Istituto per la formazione di operatori aziendali) hanno accettato di ridursi lo stipendio e l’orario del lavoro per fare assumere ventinove giovani che avevano dei contratti precari. Si tratta del primo caso in Italia di concreta applicazione del contratto di solidarietà espansivo. Il diario del lavoro ha chiesto a Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, di partire da questo caso per fare una panoramica sulla situazione economica nel Paese.
Loy, i contratti di solidarietà espansiva possono essere uno strumento per superare la crisi?
Non sempre. Non bisogna avere atteggiamenti dogmatici sul giusto equilibrio tra diritti, tutele e strumenti di solidarietà. Si deve però tenere conto che i contratti di solidarietà espansiva vanno tarati sulla storia delle aziende che li applicano e non possono essere semplicemente copiati. Si tratta di uno degli strumenti che permette di sopravvivere alla crisi, ma abbassare generalmente gli stipendi potrebbe aggravare ancora di più il calo dei consumi. Inoltre, si possono chiedere sacrifici ai lavoratori che hanno stipendi medio alti, ma difficilmente li si può pretendere con quei lavoratori che già stentano ad arrivare a fine mese.
Spesso si propone di lavorare meno ore per lavorare tutti. Servirebbe ad uscire dalla crisi?
Non penso, i problemi italiani sono la bassa produttività e i bassi salari. Lavorare di meno non risolverebbe il problema.
La situazione generale del paese sembra non migliorare e l’Unione Europea ci chiede delle politiche di riduzioni della spesa che difficilmente permetteranno di recuperare le risorse per tagliare il fisco e portare avanti molte delle politiche che le parti sociali propongono. Come fare?
Bisogna tagliare sul serio lo spreco ingente di risorse pubbliche per fare la riforma fiscale e rilanciare i consumi. Inoltre, per quanto riguarda le infrastrutture e gli investimenti che possono essere utili per il rilancio del Paese si possono utilizzare i fondi europei. I pochi soldi che ci saranno andranno spesi bene.
Ci vorrà comunque del tempo prima che i consumi ripartano. Le aziende che esportano per ora sono le uniche che sembrano reggere abbastanza bene la crisi. Per far ripartire l’economia ci sono degli interventi che si possono fare per aiutare queste imprese a vendere ancora più prodotti all’estero?
Sicuramente, se le banche concedessero più credito, sarebbe possibile fare molti investimenti che oggi le imprese che esportano non possono fare.
Il movimento Cinque Stelle, che è il primo partito italiano, sembra non vedere di buon occhio molte delle infrastrutture che sono attualmente in costruzione, come Tav, aeroporti e autostrade. L’economia italiana ne ha bisogno o hanno ragione i detrattori che pensano siano uno spreco di soldi pubblici?
Le industrie ne hanno un bisogno disperato. Soprattutto nel meridione, dove trasportate merci può costare il doppio che in molti paesi nostri concorrenti. Per non parlare dei viaggiatori. Per raggiungere alcune importanti città del Sud ci si mette molo più tempo che per percorrere le stesse distanze al Nord.
Molti sostengono che gli speculatori utilizzino le debolezze dei paesi dell’Europa Meridionale per poter distruggere l’Euro. Secondo loro il problema non sarebbero le carenze italiane, spagnole o greche, che erano risolvibili in tempi più lunghi, ma la mancanza di un governo centrale europeo. Se la speculazione colpisce l’Europa per segnalare che non si può avere una moneta unica e 17 governi diversi, i sacrifici che gli italiani stanno pagando a duro prezzo non rischiano di essere del tutto inutili?
Certamente sì, al punto in cui siamo rimangono solamente due risposte possibili, o un’Europa con un governo centrale e democratico, o nessuna Europa. Io propendo per la prima scelta.
Spesso si leggono notizie contrastanti sulla capacità dell’Italia di reggere alla crisi. A volte si parla di un forte declino dell’industria, a volte si dice che in realtà le fabbriche resistono. Quale è la sua opinione in merito?
Sicuramente nel settore manifatturiero le imprese che non stavano in piedi o che dipendevano da soldi pubblici hanno chiuso, mentre quelle che erano vincenti sui mercati sono sopravvissute. Questo dà alcune speranze, l’importante è che la produzione delle imprese fallite sia assorbita da nuove imprese.
Un discorso diverso va fatto per il terziario e per le aziende che dipendono da commesse pubbliche. Lì il calo dei consumi ha portato alla chiusura o alla crisi di molte imprese sane. In questi settori è assolutamente necessario un rapido mutamento delle politiche europee. Lo Stato deve tornare a investire ed i privati a consumare.
Nell’ultimo anno si è tanto parlato della necessità di riformare la burocrazia italiana e la giustizia, in quanto la tempistica dei processi e le procedure complicatissime dei vari permessi, scoraggiano molti di quelli che vogliono investire nel Paese. È stato fatto qualcosa?
Molto poco ed è un vero problema. Soprattutto perché spesso ci si perde nella burocrazia senza ottenere nemmeno una riposta chiara. Il settore ambientale è il classico esempio. Si devono chiedere mille permessi e spesso si ottengono risposte ambigue.
Luca Fortis