“Il ruolo degli immigrati nell’agroalimentare è un pilastro sociale, culturale ed economico. Una componente rilevante se non insostituibile in molte filiere”. Con queste parole Onofrio Rota, segretario generale della Fai-Cisl, ha introdotto la presentazione, aperta da un minuto di silenzio per l’incidente alla centrale elettrica di Suviana, del volume “Made in immigritaly”, primo rapporto dei lavoratori immigrati nell’agroalimentare, realizzato dalla Fai insieme al Centro studi Confronti.
“L’agroalimentare è un settore da 600 miliardi fatturato e 64 di export, dove il ricambio generazionale è portato avanti solo dagli immigrati, che coprono il 31% delle giornate lavorate e sono 362mila su 1 milione di addetti. Una quota che nel 2030 – afferma il segretario generale della Fai-Cisl, dove su 221mila iscritti 50mila sono migranti – è destinata ad arrivare al 50%. Le sfide che attendono il settore sono molte: formazione, diritti, sostenibilità ambientale, senza dimenticare l’impatto dell’intelligenza artificiale. Trasformazioni da governare e che devono coinvolgere anche i lavoratori immigrati, per rendere l’agroalimentare italiano ancora più attrattivo”.
“La buona contrattazione – sostiene il sindacalista cislino -può fare molto, attraverso i contratti provinciali, che possono integrare il livello nazionale, e incidere sui salari e i servizi per lavoratori e imprese. La bilateralità, poi, è una chiave di volta per evitare il mismatch tra offerta e domanda al livello territoriale. Al tempo stesso la politica deve agire sul piano normativo, rimuovendo quegli ostacoli burocratici che generano e un vero e proprio caporalato di stato, rivedendo la legge Bossi-Fini e abbandonando le modalità da click day”.
Il rapporto, suddiviso in tre sezioni, che affrontano rispettivamente i rapporti tra immigrazione e agroindustria, nove casi studio territoriali e raccomandazioni politiche per la regolamentazione, la tutela e il riconoscimento di un fenomeno destinato a crescere, non solo punta i riflettori sullo sfruttamento agricolo e le molte criticità ancora presenti – tra il 2017 e il 2021 su 438 casi di procedimenti giudiziari per sfruttamento 212 hanno riguardato il solo settore agricolo – ma guarda anche a quelle caratteristiche che rendono il settore una leva potenziale di integrazione economica e sociale, nel rispetto delle specifiche peculiarità territoriali.
È dunque difficile poter leggere il fenomeno in modo unico. Una polarizzazione tra un nord virtuoso e un sud ostaggio dell’illegalità non è più attuale. La piaga del caporalato, ancora molto forte nel Mezzogiorno, è cresciuta anche al centro e nel settentrione. Il rapporto evidenzia anche un forte dinamismo del lavoro migrante attraverso l’imprenditoria straniera. I dati di InfoCamere raccontano di oltre 20mila aziende gestite da stranieri, il 3% delle complessità delle imprese di settore, mentre gli imprenditori che provengono da oltre i confini nazionali sono poco più di 28mila, sempre il 3% del totale.
Molti immigrati fanno ancora parte di quel lavoro grigio dai contorni non sempre individuabili. La manodopera straniera, sempre più richiesta per il calo di quella italiana, è stratificata e sottoposta a situazioni di avvicendamento, per cui gli africani sono stati sostituiti dai lavoratori dell’Est Europa, che ora sono in calo, anche per la concorrenza di altri mercati che offrono salari più alti e maggiori tutele, rimpiazzati dagli asiatici. Lavoratori e persone wanted but non welcome, ricercati di giorno come braccia per i nostri campi, ma mal sopportati come vicini o genitori di figli che vanno a scuola con i nostri.
L’azione del sindacato dunque non si traduce solo nella semplice contrattazione o tutela degli iscritti, ma diventa luogo nel quale la dimensione lavorativa e di cittadinanza della persona si saldano in un percorso di crescita comune.
Tommaso Nutarelli