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Massimo d’Antona, un ricordo

Guido Laj
Maggio22/ 2023

Massimo D’Antona è stato ucciso dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1999 sotto casa sua, a Via Salaria. Qualche giorno prima dell’assassinio Carlo Azeglio Ciampi era stato eletto, al primo scrutinio, Presidente della Repubblica, ed il primo appuntamento pubblico a cui partecipò nella nuova veste furono proprio i funerali di D’Antona, alle spalle del Ministero del Lavoro.

Quando è stato ucciso, Massimo D’Antona aveva cinquantuno anni, era avvocato e docente di Diritto del Lavoro all’Università La Sapienza. Era unanimemente considerato un grande esperto di mercato del lavoro e degli aspetti giuridici della contrattazione collettiva e degli scioperi nei servizi pubblici. Per questo, dopo aver insegnato alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, nel ’95 fu chiamato dal Presidente del Consiglio Dini a svolgere le funzioni di suo consigliere prima e di sottosegretario al ministero dei trasporti poi, collaborando con il ministro Giovanni Caravale.

Con il governo Prodi, nell’aprile del ’96, il nuovo ministro del Lavoro Treu, lo aveva voluto con lui per coordinare la commissione che lavorò al disegno di legge sulla rappresentatività sindacale, e aveva poi collaborato anche con il ministro della Funzione Pubblica Bassanini, alle leggi di riforma della P.A. che sono poi passate alla storia appunto come “Leggi Bassanini”. Quando nel 1998 Bassolino divenne ministro del Lavoro, lo incaricò di coordinare sia la commissione di esperti per la riforma degli ammortizzatori sociali che il comitato consultivo per la riforma del mercato del lavoro.

Ma, in verità, non ebbe incarichi importanti solo nel campo della politica: è stato uno dei membri più autorevoli della consulta giuridica della CGIL, nel ’97 è stato nominato amministratore straordinario dell’Ente nazionale di assistenza al volo e nel ’98 era entrato nel consiglio di amministrazione della Società Aeroporti di Roma.

Come si vede, una capacità di lavoro straordinaria, ma anche un’altrettanto straordinaria modestia e ritrosia dai riflettori. Nonostante la mole di lavoro nel quale era impegnato, quando fu assassinato, la gran parte degli italiani si chiese che faceva quest’uomo e la domanda dei giornali il giorno dopo fu: perché proprio lui?

Michele Serra, quel giorno su Repubblica, ha indirettamente risposto a questa domanda con poche righe, bellissime: “Una borsa. Una di quelle borse di cuoio panciute e lise, farcite di libri e di documenti, che dondolano in mano ai professori, quando i professori camminano per strada. Questa era l’arma con la quale Massimo D’Antona partecipava alla vita pubblica, e con la quale dicono abbia cercato di farsi scudo contro il piombo. Dopo che l’hanno portato via, la borsa è rimasta sul selciato, ripresa da tutti i tigì e ritratta da centinaia di istantanee. Sui giornali di ieri, circondata da un cerchietto di gesso, quella borsa inerte aveva la solennità e l’intensità del lutto. Cadavere anch’essa, inerme come sono inermi gli studi, i ragionamenti, i pensieri di fronte all’odio. Se i simboli contano – e contano – il primo assassinio brigatista dopo undici anni di requie passerà alla storia come il duello tra una borsa e una pistola. Nell’immediato, non poteva che essere un duello di straziante disparità, marchio di vigliaccheria per chi uccide gli inermi. Ma appena diradati gli spari, si capisce che oggi come allora la ‘geometrica potenza’ non è quella delle armi, ma quella del lavoro intellettuale, dello studio, della ragione politica. Le pistole si scaricano. Quella borsa rimarrà sempre carica”.

Massimo D’Antona è stato ucciso per questo: perché il suo lavoro e le sue idee erano al servizio insieme della sinistra e del paese, del sindacato e del governo, dell’insegnamento e della ricerca, dei giovani in cerca di lavoro e dei lavoratori. Era un uomo di sinistra che considerava la concertazione, il dialogo, il confronto e l’azione di governo come la via maestra per far progredire il paese, migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, affermare principi e valori di equità e giustizia.

Quello che colpì gli italiani in quei giorni terribili fu certamente la modestia e la semplicità di un uomo che svolgeva funzioni molto rilevanti. Quello che colpì me, che ne conoscevo i ruoli solo in parte, fu lo straordinario intreccio fra lo studio, la ricerca e l’applicazione pratica e concreta di questo studio e di questa ricerca. Un uomo che passava ore e giornate in biblioteca o in archivio ma che aveva poi come una febbre interiore che lo spingeva a trovare occasioni per applicare e concretizzare le cose che studiava; sempre al servizio di idee e valori ben precisi.

In questa applicazione delle sue ricerche un assillo lo guidò sempre: la concertazione basata sulle regole. Sia in materia di sciopero, che della rappresentatività sindacale, che del mercato del lavoro o degli ammortizzatori sociali il problema era stabilire regole chiare, semplici e condivise che consentissero a tutte le parti in campo di poter svolgere il proprio ruolo al meglio delle proprie possibilità.

Le condizioni del lavoro in Italia nell’ultimo quarto di secolo sono drasticamente cambiate. Sia nella sostanza sia nelle norme: dalla legge Biagi al Jobs Act. Le istituzioni, la politica, le parti sociali continuano a ragionare su questi temi. Consapevoli che, a causa della follia brigatista, in questo paese c’è chi è stato ucciso semplicemente per aver svolto con passione e intelligenza il proprio impegno civile e politico. Massimo D’Antona come Ezio Tarantelli, Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli, Marco Biagi…. Il terrorismo assassinò, tra i tanti, coloro che concretamente lavoravano per il progresso civile e materiale dell’Italia.

A noi spetta il compito di ricordarli ma anche di continuare la loro opera. Non c’è progresso civile e materiale senza un lavoro dignitoso per tutte e per tutti. Su questo, innanzitutto su questo, si misurerà la capacità di svolgere la nostra funzione nell’Italia di oggi.

Guido Laj

Guido Laj

Guido Laj, segretario Pd 2° Municipio (Roma)