“La politica che non bisogna nominare” la definiva, con un tocco d’ironia, uno studio del Fondo monetario internazionale nel 2019. Quarant’anni di cattiva reputazione avevano, in effetti, reso sconveniente qualsiasi riferimento esplicito alla politica industriale. Strumento principe della programmazione economica nel lungo dopoguerra, l’idea che i governi potessero e dovessero elaborare misure per stimolare specifiche attività economiche era franata negli anni ‘80 con la marcia della rivoluzione reaganian-thatcheriana. Nel mantra della degolamentazione seriale, non c’era posto per una guida centralizzata delle occasioni di sviluppo, inevitabilmente soggetta a tentativi ed errori, che la facevano etichettare come una fiera delle scommesse sbagliate. Nei dieci comandamenti del Washington Consensus che, all’inizio degli anni ‘90, riassumevano l’ortodossia neoliberale che le istituzioni internazionali intendevano promuovere a livello globale (libera circolazione di merci e capitale, zero sussidi ecc.) la parola chiave era mercato, discendenza diretta della “mano invisibile” di Adam Smith.
In realtà, le notizie sulla morte della politica industriale sono sempre state esagerate. Le due grandi superpotenze mondiali hanno sempre applicato una occhiuta politica industriale. In modo aperto, anzi plateale, la Cina, più ancora che per proteggere le proprie industrie, per conquistare posizioni di prevalenza in settori individuati come strategici. L’egemomia cinese nei pannelli solari e nelle batterie al litio è figlia diretta di scelte di politica industriale. In modo più discreto, ma decisivo, negli Stati Uniti: la grande rivoluzione di Internet, come tutto il sistema satellitare dei Gps è stata stimolata e protetta dal Darpa, il braccio finanziario del Pentagon0. Ironicamente, il Washington Consensus è vissuto più a lungo che altrove a Bruxelles, dove lo spazio per scegliere e allevare campioni nazionali è drammaticamente ristretto dall’esigenza di non ledere interessi e gelosie nazionali e dalla necessità di non intaccare il mercato unico. Quando la Ue è intervenuta con decisione, come sull’effetto serra, lo ha fatto con il tortuoso e complicato sistema del mercato delle emissioni, che fa proprio il principio di mercato, sia pure anticipandone i tempi (alla lunga, la CO2 fa male anche all’economia, ma ce ne accorgiamo in ritardo).
In effetti, l’ortodossia neoliberale ha cominciato ad oscurarsi con la crisi finanziaria del 2008 e poi con i travagli dell’austerità, ma è l’emergenza clima che ha rovesciato i termini dell’equazione: la “fiera delle scommesse sbagliate” è diventata meno preoccupante dell’inanellarsi dei “fallimenti del mercato”, cioè tutti quei casi in cui le logiche di mercato non consentivano quel salto in avanti che poi si sarebbe visto necessario.
In quello studio del Fmi, della politica “che non bisogna nominare” si esaminava, in effetti, il ritorno, dettato soprattutto dall’ incapacità del mercato di rispondere spontaneamente alle sfide della storia, come la crisi climatica. Gli eventi successivi hanno però allargato il ventaglio dei fallimenti di mercato.
L’emergenza Covid ha dolorosamente portato in primo piano i rischi di una dipendenza dall’estero per beni, letteralmente, vitali, come i vaccini o, in generale, le forniture mediche, anche umili, tipo siringhe e mascherine.
La marcia impetuosa sia dell’economia digitale, che di quella sostenibile hanno puntato il riflettore su angoli apparentemente remoti, come le terre rare (quei minerali esotici, cruciali sia per il gitale che per l’ecologico), malauguratamente abbondanti solo in Cina, e hanno così spinto la Ue a caricarsi l’inaspettato compito di trasformarsi in minatore, a caccia di terre rare sul continente.
La guerra in Ucraina ha fatto esplodere il problema della dipendenza energetica dell’Europa dai fornitori esteri, oggi la Russia, domani gli arabi e gli africani.
Molti economisti arricceranno il naso e faranno notare che, in ognuno di questi casi, più che di fallimenti di mercato sarebbe corretto parlare di fallimenti della globalizzazione che, fino a ieri, guidava la produzione di merci secondo le convenienze di mercato a livello globale, mentre oggi si scopre – in larga misura più per motivi geopolitici che economici – che è meglio averle sotto casa. Geopolitica o economia, comunque, il risultato è che Ursula von der Leyen ha rotto vecchi consolidati tabù dell’ortodossia mercatista di Bruxelles, quando, nelle scorse settimane, ha invocato “una politica industriale europea, con un finanziamento comune europeo”.
Dove, ai fini della politica attuale, piuttosto che della storia delle idee a Bruxelles, l’aspetto che più conta è il secondo, ovvero il finanziamento. L’esigenza immediata è quella di rispondere alla vigorosa politica industriale messa in campo dalla presidenza Biden, capace di offrire incentivi per 400 miliardi di dollari per investimenti in chip e in economia verde. I soldi della Ue per i chip sono invece un decimo, una quarantina di miliardi di euro, e, per gli investimenti green, ancora da decifrare.
I rischi sono pesanti. Una politica industriale affidata alle singole nazioni rischia di far saltare il mercato unico. Ma questo è, esattamente, quello che ha fatto Bruxelles allentando i vincoli sugli aiuti di Stato, ovvero i soldi che i singoli governi danno alle aziende dei loro paesi. Per chiarire:negli ultimi due anni, metà di tutti i soldi autorizzati da Bruxelles come aiuti di Stato sono andati da Berlino alle aziende tedesche e un quarto da Parigi alle aziende francesi. Le aziende dei paesi con finanze meno toniche, come l’Italia, sono rimaste a bocca asciutta.
Per livellare il terreno di competizione, Bruxelles ha inventato l’ennesima sigla. Ipcei, ovvero “progetti importanti di comune interesse europeo”, alla cui realizzazione chiamare imprese di tutti i paesi. I settori sono quelli giusti: microelettronica, batterie, idrogeno e cloud computing. Ma la battaglia sul finanziamento è appena iniziata. E, su un terreno in cui le scommesse sbagliate sono inevitabili, l’unica cosa che non serve è il braccino corto.
Maurizio Ricci