Nessuno si aspetta che il taglio di un quarto di punto del tasso di interesse da parte della Bce abbia effetti significativi sull’economia europea. Neanche indiretti: la manovra annunciata da Draghi non ha, purtroppo, avuto neppure l’usuale impatto sul cambio, apparentemente scontato, visto che investire soldi in Europa, adesso, promette ritorni più bassi. Alle imprese che esportano nel mondo, avrebbe fatto comodo. Ma il punto chiave è che la politica monetaria continua a non essere in grado di allentare la stretta al credito che sta soffocando i paesi deboli dell’eurozona. E’ una stretta letale: la stessa Bce calcola che una maggiore facilità di credito potrebbe regalare alla stessa eurozona due punti di sviluppo economico in più. Per un paese come l’Italia, che q uest’anno registrerà un Pil a meno 1,5 per cento e, l’anno prossimo, in ascesa solo dello 0,5 per cento, è la differenza che passa fra recessione e ripresa robusta.
Il motivo, come ha chiarito Draghi fin dalla scorsa estate, è che si è rotto il meccanismo di trasmissione delle decisioni della Bce. In parole più semplici, mentre quando, fra il 2005 e il 2007, la Bce alzava i tassi dal 2 al 4 per cento, il costo del denaro per le imprese cresceva uniformemente, nell’eurozona, dal 4 al 6 per cento, oggi, quando la Bce passa dallo 0,75 allo 0,50 per cento, i tassi sui prestiti scendono dal 3, 5 al 3,25 per cento per le imprese tedesche o finlandesi, ma restano bloccati al 6-7 per cento (il doppio) in paesi come l’Italia e la Spagna, dove il costo del denaro è dettato soprattutto dagli spread sui rispettivi titoli di Stato. Le radici di questo processo sono varie, ma quello che più conta è l’impatto devastante che questa scarsità e/o costo spropositato del credito hanno sulle imprese, in particolare sulle piccole e medie aziende, che non sono in grado di rastrellare capitali sul mercato emettendo azioni o obbligazioni.
Per l’Europa è un problema doppiamente più grave di quanto sarebbe altrove. Da noi, più che negli Usa, ad esempio, le piccole e medie aziende si rivolgono quasi esclusivamente al credito bancario per finanziare la propria attività. E, in secondo luogo, una quota altissima dell’occupazione (fra il 60 e l’80 per cento) è concentrata nelle imprese di minore dimensione. La ripresa passa da qui. Ecco perchè l’interesse, oggi, è focalizzato sulle prossime mosse della Bce e, in particolare, sulla possibilità di una iniziativa specifica per sbloccare il credito alle piccole imprese. Paradossalmente, questo dovrebbe avvenire riesumando una delle trappole letali dell’ultima crisi finanziaria: i titoli-salsiccia. E’ il nomignolo dei Cdo, su cui è cresciuta e esplosa la bolla immobiliare americana. Allora, si trattava di mettere insieme grossi pacchetti di singoli mutui edilizi, vendendoli all’ingrosso a investitori, che si assumevano così gli incassi delle rate di mutuo, ma anche i rischi di perdite.
Oggi, questi nuovi Cdo (il nome corretto è Abs, asset-backed securities) sarebbero più sofisticati. Le banche metterebbero insieme pacchetti di prestiti ai piccoli imprenditori e li scambiebbero alla Bce con buoni del Tesoro. Presentando questi Bot come pegno sul mercato interbancario, sarebbero in grado di finanziarsi a costi inferiori, di cui, alla fine, beneficerebbero le piccole imprese di partenza. Per essere sicuri che i soldi vadano davvero alle piccole imprese, questa operazione sarebbe riservata solo alle banche che dimostrino di avere effettivamente aumentato i prestiti alle aziende minori. Una grande banca americana, J.P. Morgan, calcola che il volume di prestiti coperto da questo scambio di titoli potrebbe essere di 170 miliardi di euro, non poco in questi tempi di siccità. Può funzionare?
Qualcosa di simile è già stato messo in moto in Inghilterra, ma i dubbi sono molti. Di fatto, lo scambio fra titoli di Stato e prestiti ipotizzato significa scaricare interamente sulla Bce i rischi legati ai prestiti al mondo delle piccole imprese. Per evitarlo, la Bce potrebbe limitarsi ad acquisti mirati di questi Abs, per incoraggiare il mercato a comprare il resto. Ma il nodo è che, rispetto ai mutui immobiliari, il rischio legato ai crediti alle imprese è assai più diversificato, anche in base alle dimensioni, ai tipi di proprietà, al settore di attività. Valutare questi Abs, per le agenzie di rating, sarebbe probabilmente impossibile. Inoltre, il tasso di fallimento, fra le imprese, è storicamente più alto della quota di proprietari di casa che non hanno i soldi per le rate del mutuo. Infine, pignorare una casa e metterla all’asta per rientrare del prestito è sicuramente più facile che ristrutturare o vendere un’azienda. E’ un sentiero stretto. Però, non ce ne sono molti altri.
Maurizio Ricci