Tornare alle origini, a un sindacato radicato nel territorio, attento alle necessità dei lavoratori, intento a una contrattazione centrata sui contratti nazionali, ma pronto a svolgere il suo ruolo in azienda. Paolo Pirani, segretario confederale Uil, non si nasconde il pericolo che il sindacato sta passando, capisce bene che lo tsunami politico potrebbe travolgere anche il sindacato, ma ha fiducia. Anche perché a suo avviso il sindacato è ancora tra le poche se non l’unica forza che parla con i lavoratori, conosce i loro problemi, è pronto a rappresentarli. Ma, appunto, deve cambiare. No al governo amico, meno talk show, più assemblee.
Pirani, lo tsunami della politica ha risparmiato il sindacato, che però è in crisi profonda. Quale è la sua analisi?
E’ chiaro che le ultime vicende elettorali hanno platealmente mostrato la crisi della rappresentanza, il corto circuito che si è verificato tra il comune sentire delle persone e la loro rappresentanza politica. Io credo che una parte consistente del voto di protesta che si è concretizzato nel movimento 5 stelle, come in passato in alcune zone del paese si era rivolto alla Lega Nord, è stato espresso dalle persone che noi rappresentiamo, dai lavoratori. A differenza di quanto accadde per la Lega Nord questa volta però il fenomeno ha assunto una dimensione nazionale. I partiti che erano tradizionalmente i destinatari del voto dei lavoratori per proprie dichiarazioni programmatiche non hanno intercettato quel voto, né la sinistra radicale, né il Pd.
Questo è un problema per voi?
Ci pone una serie di problemi. Ma la prima cosa da fare è capire le dimensioni di questa crisi, che io non penso riguardi solo i sindacati. Ci sono analoghe problematiche nel fronte della rappresentanza delle imprese. E’ evidente la perdita di vocazione egemonica di Confindustria, specie dopo l’uscita della Fiat, e non sembra riuscito il tentativo di Rete imprese Italia, che voleva rappresentare un certo mondo ma ha fallito, tanto che assistiamo a una frantumazione molecolare della rappresentanza della piccola impresa. Non ci sarebbe altra spiegazione del resto per interpretare il ruolo che ha avuto l’Abi nel recente negoziato sulla produttività. La verità è che la crisi dei corpi intermedi ci riguarda tutti.
Voi che pensate di fare?
La cosa peggiore sarebbe affidarsi allo stellone. Tipo “io speriamo che me la cavo” o “adda passà ‘a nuttata”.
Perché peggiore?
Perché al contrario noi dobbiamo avere il coraggio di affrontare fuori dagli schemi tradizionali il problema della rappresentanza e lo dobbiamo fare cercando di capire come la gente ci vive. Noi almeno per ora abbiamo retto lo tsunami non perché siamo capaci di stare nei talk show o perché facciamo o non facciamo i patti col governo. Se fosse stato solo questo avremmo fatto la fine della rappresentanza politica. Ciò non è accaduto perché noi ancora conserviamo una dinamica democratica sui luoghi di lavoro e siamo tra i pochissimi, se non gli unici, ancora in grado di parlare con le persone dove le persone stanno. Bisogna però che questo non sia un portato marginale della nostra azione sindacale rispetto a un’azione di serie A fatta a Roma nei palazzi, ma torni a essere, come in altre stagioni, il centro e l’elemento caratterizzante del nostro essere sindacato.
E’ possibile questo ritorno alle origini?
E’ evidente il fallimento delle impostazioni politicistiche dell’azione sindacale, che si realizzino con l’idea di un patto attorno a Monti o nella ricerca spasmodica di un governo amico. Alla prova dei fatti entrambe queste opzioni non hanno retto. Noi, al contrario, abbiamo puntato a riprendere un ruolo contrattuale forte e per questo rifiutammo l’idea di contratti ponte che aiutassero ad arrivare a momenti politicamente più felici. Abbiamo puntato invece su un sistema di contrattazione centrato sugli accordi nazionali che dessero una risposta ai problemi salariali e dotassero lavoratori e imprese di strumenti normativi flessibili sull’organizzazione del lavoro e sulla gestione degli orari capaci di farci affrontare e gestire le problematiche della crisi e le conseguenti ristrutturazioni.
Questa vostra scelta è sufficiente?
Occorrerebbero indicazioni di politica economica di cui non si vede luce, che facciano saltare il sistema di governo dell’economia messo in piedi dalla Ue. Ma è meglio procedere con un passo alla volta.
Al sindacato cosa serve per riuscire in questo compito?
Ci servirebbe una maggiore radicalità, meno prudenza nel pretendere un cambio di sistema che faccia tornare la produzione di ricchezza attraverso il lavoro il perno della nostra economia. Questo è un sindacato che decide di radicarsi sul posto di lavoro anche in maniera più visibile. Non vogliamo seguire l’idea del sindacato giurisdizionale, come fa la Fiom, pensiamo invece a un sindacato che giochi le sue carte sul profilo contrattuale e sul ruolo delle sue rappresentanze in azienda. E’ stato molto importante quanto abbiamo fatto per le rappresentanze nella pubblica amministrazione e per questo credo che l’idea di un election day nei settori privati organizzato per categorie possa rappresentare un’indicazione forte. Non dobbiamo avere timori di un largo coinvolgimento nelle scelte dei rappresentanti dei lavoratori, che vanno considerati come “cittadini” e non solo persone da convincere a cui chiedere i contributi. Sarebbe un segnale forte, ma bisogna avere la capacità di cambiare linguaggio, essere più diretti, non avere paura di esprimere con determinazione le istanze dei lavoratori, e contemporaneamente coinvolgere le persone.
Lei pensa che il sindacato potrebbe così superare i suoi problemi?
La crisi che stiamo attraversando è sistemica e profonda, non ci sono soluzioni preconfezionate, ed è differente da altre crisi che abbiamo attraversato. Come quella del dopoguerra: la situazione economica e sociale era terribile, ma c’era l’idea che assieme ce la potevamo fare, c’era la speranza e c’era una forte rappresentanza politica e identitaria. Oggi questa crisi ci consegna le persone più sole, spesso disperate, senza punti di riferimento e certezze, e questo ci carica di responsabilità maggiori, proprio per quello che siamo ancora, per il radicamento che abbiamo. Ridare speranza e fiducia in un’azione più collettiva: questo penso possa essere il compito di un sindacato che crede nella sua funzione nazionale e ha un’idea di società su cui puntare.
Massimo Mascini