A stare con il naso incollato sulle statistiche mese per mese, le ultime notizie da quell’area sinistrata che è l’economia dell’eurozona sono buone. Aumenta la fiducia, la produzione industriale cresce più del previsto in tutti e quattro i principali paesi, l’export tedesco tiene e, soprattutto, l’euro scende, promettendo qualche beneficio anche all’export degli altri europei. Ma se si guarda un po’ più da lontano, quello che si vede è meno confortante: l’area nel suo complesso è sull’orlo della deflazione, che è realtà in molti paesi, Italia compresa; i consumi ristagnano, la domanda non parte. Rimettere in moto l’economia europea sembra, insomma, sempre più difficile: la leva delle esportazioni è appesantita dal declino del commercio mondiale, quella degli investimenti è ferma per la ritrosia degli imprenditori. Restano i consumi, ma è difficile che i consumi decollino se non si muovono i salari. E i salari non si muovono.
In parte, è fisiologico che le retribuzioni non crescano, anche se fosse vero che la recessione è finita. Normalmente, prima si riassorbe la disoccupazione. Ma il ristagno dei salari dura da troppo tempo e finisce per aggravare la spinta alla deflazione, intaccando la fiducia dei consumatori. Lo dimostra l’esasperazione con cui anche economisti prudenti e ortodossi, come quelli della Banca centrale europea, a Francoforte, seguono l’immobilità delle buste paga. Ogni volta che azzardano una previsione, gli economisti di Draghi ipotizzano una crescita dei salari che, sistematicamente, non si verifica.
Nel settembre 2014, il bollettino della Bce prevedeva un aumento della retribuzione per addetto, nell’eurozona, dell’1,8 per cento nel 2015 e del 2,2 per cento nel 2016. Un anno dopo, nel settembre 2015, doveva riconoscere che i salari stavano crescendo solo dell’1,6 per cento (due decimi in meno) e, soprattutto, che nel 2016 sarebbero saliti nella stessa misura, altro che 2,2 per cento. Obiettivo che veniva spostato all’anno successivo, il 2017. Speranze buttate. Nell’ultimo esercizio di previsione, il mese scorso, gli economisti della Bce riconoscono un drastico rallentamento dei salari: invece che del previsto 1,6 per cento, solo l’1,2 per cento, una frenata rispetto agli anni precedenti. Solo l’1,8 per cento nel 2017 e l’agognato scavallamento del 2 per cento soltanto nel 2018. Fino a nuova correzione.
La verità, infatti, è che i dati dicono che i salari, al contrario delle speranze, stanno rallentando, in qualche caso in modo anche vistoso. In Francia continuano lentamente a scivolare: da un ritmo annuo di aumento del 2 per cento nel 2012 sono inesorabilmente scesi all’1 per cento. In Italia e in Spagna, il rifiato che si era visto nello scorso inverno e che aveva riportato il ritmo di aumento annuo dei salari sopra l’1 per cento in Italia e, finalmente, sopra lo zero in Spagna, si è già esaurito. Le retribuzioni stanno salendo dello 0,8 per cento in Italia e stanno facendo retromarcia in Spagna. Ma il dato più preoccupante è quello tedesco. La Germania è il paese a cui tutto il resto d’Europa guarda per una spinta vivace all’economia che la situazione fiscale le consentirebbe: un’impennata dei consumi tedeschi favorirebbe le importazioni dagli altri paesi dell’eurozona. Ma i segnali che arrivano dalla politica salariale delle imprese tedesche sono di segno opposto: dopo una modesta impennata (più 3 per cento) nel 2015, i salari tedeschi stanno bruscamente decelerando. Quest’anno cresceranno a malapena dell’1 per cento, come quelli francesi.
Il segnale è pessimo. Se si disegna un grafico dei salari nominali dell’eurozona dal 2000 ad oggi si vede che l’andamento segue perfettamente (fino ad essere, dal 2010, praticamente indistinguibile) quello dell’inflazione al netto dell’effetto petrolio, cioè dall’inflazione che ci dà il polso dell’economia europea. Che, appunto, batte molto piano.
Maurizio Ricci