Secondo l’edizione 2016 del rapporto Cnel sul mercato del lavoro il mercato italiano presenta debolezze strutturali che lo spingono in fondo alle classifiche europee in tutti i principali indicatori.
Il rapporto esamina l’impatto della globalizzazione sulla domanda e l’offerta di lavoro, in un contesto dominato: da 1) assenza di un sistema istituzionale europeo di governo delle tendenze economiche, democraticamente legittimato, 2) ritardo accumulato dal Paese nell’adeguare le proprie strutture economiche e sociali a sollecitazioni esterne.
Tra i dati principali contenuti nel rapporto emergono le differenze di genere: il tasso di attività femminile è di circa 20 punti percentuali inferiore a quello maschile (75% contro il 55% rilevato ad agosto 2016), nonostante i lievi miglioramenti negli ultimi anni. Ritenendo che tale divario dipenda da fattori strutturali, il rapporto mostra che il possesso di un più elevato grado di istruzione accresce la probabilità di avere un’occupazione e riduce le differenze di genere. Nelle regioni del Nord le donne e gli uomini con elevata istruzione hanno la stessa probabilità di occupazione (poco più del 70%), mentre al Sud tra le persone con bassa istruzione la probabilità cala al 10% per le donne e al 30% per gli uomini.
I lavoratori italiani e stranieri: tra il 2007 e il 2015 (ultimo dato disponibile) i lavoratori italiani diminuiscono di 1 milione e 341 mila unità (-7,5%), mentre i lavoratori stranieri aumentano di 912 mila unità (+63%).
L’occupazione e livello di istruzione: tra il 2007 e il 2015 (ultimo dato disponibile), gli occupati privi di titolo di studio o in possesso di licenza elementare o di scuola media diminuiscono di 1 milione e 786 mila unità (-20%), mentre il numero di occupati diplomati o laureati aumenta di 1 milione e 357 mila unità (+10%).
Le qualifiche professionali: tra il 2007 e il 2015 (ultimo dato disponibile), cala il numero di dirigenti e imprenditori (-47%), tecnici(-21%) e operai e artigiani (-16%), mentre diminuiscono gli occupati nelle professioni intellettuali (+37%), gli addetti alla vendita e ai servizi alla persona (+17%) e il personale non qualificato (+24%).
la contrattazione di secondo livello (aziendale) nel settore privato e le materie regolate. Esiste una forte concentrazione in pochi settori industriali (tre quarti dei contratti sono concentrati in 6 settori). Le materie più frequentemente trattate sono: premio di risultato (61% del totale), informazione/consultazione dei sindacati e dei lavoratori (38%), sviluppo professionale e formazione (30%).
Il rapporto ridimensiona il peso dei fattori esterni sull’incapacità del Paese di riavviare un percorso di crescita e tenere il passo con gli altri membri UE: la congiuntura internazionale dovrebbe avvantaggiare l’Italia rispetto a Paesi con un maggiore peso dell’export sul Pil, la politica monetaria è uguale in tutta l’area euro e favorisce un Paese ad elevatissimo debito, il rigore della politica fiscale si traduce per l’Italia in un saldo di bilancio primario corretto per il ciclo pari a circa tre volte la media dell’area euro. Il CNEL ritiene che l’elevato tasso di disoccupazione e il basso tasso di occupazione regolare (drammatico per donne, giovani e Mezzogiorno) si debba a ragioni profonde fondate sul modello di società e di economia, che si possono riassumere come segue:
1) E’ ridotto il numero di persone che lavorano regolarmente e che di conseguenza partecipano attivamente alla fiscalità, alla spesa pubblica e alla sostenibilità del sistema; questa scarsa partecipazione attiva si cumula ad altri fattori di contesto e produce un circuito negativo di effetti che si scarica su produttività e costo del lavoro.
2) La produttività media del lavoro, sotto la media dell’area euro, cala da circa 15 anni a causa di: a) progressivo impoverimento del capitale umano in settori strategici per il futuro del Paese (bassa diffusione delle competenze scientifiche e ICT, ridotta conoscenza delle lingue, inadeguati tassi di investimento in ricerca/sviluppo che generano una perdita netta permanente di capitale umano altamente qualificato); b) caratteristiche qualitative strutturali del mercato (dimensione delle imprese, barriere all’accesso dei mercati per beni/servizi e per attività professionali); c) scarsa metabolizzazione della cultura del merito e della legalità nel tessuto sociale.
3) Il tasso di natalità della popolazione autoctona, senza precedenti nella storia recente, affida la crescita demografica esclusivamente alla componente immigrata, con l’arrivo di masse di immigrati giovani ma non solo. Ciò pone con urgenza le questioni dell’accesso all’occupazione regolare e alla partecipazione attiva alla contribuzione, delle prospettive di sostenibilità finanziaria del sistema, della necessità di interventi combinati che incentivino la natalità e incentrino l’accoglienza sulla responsabilizzazione finalizzata all’inserimento nel mercato, piuttosto che sull’assistenzialismo.
4) Lo scenario consolidatosi negli ultimi dieci anni mostra una generale estensione del lavoro a bassa qualificazione e un tendenziale abbassamento della qualità diffusa delle condizioni di lavoro dopo decenni di progressivo miglioramento: dal 2012 il tasso di attività della fascia priva di titoli di studio o con licenza elementare è aumentata di quasi due punti. L’inefficiente rapporto fra sistema scolastico e mercato del lavoro (mancato collegamento fra sistema formativo e domanda di lavoro qualificato) alimenta un’offerta di lavoro di scarsa qualità che il mercato assorbe. La situazione è aggravata dai dati sulle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa: la distribuzione dell’orario di lavoro e lo scarso ricorso al part time scontano una propensione negativa dei datori per cause culturali e organizzative e comprimono le possibilità di conciliazione dei tempi di vita/lavoro rafforzando le barriere all’accesso delle donne. Il quadro è negativo anche nel campo della sicurezza sul lavoro: si registra un aumento tendenziale delle malattie professionali, mentre il raffronto fra indice degli occupati e quello degli assicurati INAIL suggerisce che si sia formata una platea di lavoratori non protetti, che sfuggono agli standard di sicurezza di base.
5) Come indicatore della qualità del lavoro, la pratica delle relazioni industriali mostra che al 50% del totale dei lavoratori in attesa di rinnovo del contratto si aggiungono un generale deterioramento delle relazioni sui luoghi di lavoro, l’indebolimento del lavoratore e delle sue rappresentanze, la marcata individualizzazione di ciascuna posizione lavorativa e un progressivo spostamento del rapporto di forza fra impresa e lavoratori dove la crescita della produttività diventa funzione esclusiva del lavoro anziché dell’intero sistema produttivo. Lo stesso dibattito sulla produttività risulta asimmetrico, raramente associato alla sollecitazione dei necessari investimenti pubblici e privati.
Il rapporto segnala la necessità che, in un Paese connotato da marcate differenze nel territorio e da frammentazione degli strumenti di tutela, la contrattazione di tutti i livelli assuma il compito di corrispondere alle dinamiche locali della produttività e alle specifiche condizioni di lavoro, ma anche di tendere al progressivo superamento delle disparità, come – tra l’altro – prevede la nostra Costituzione. Sul ruolo della contrattazione nella promozione di una più equa distribuzione dei salari fra i generi, il rapporto mostra che, nonostante i livelli medi delle retribuzioni orarie siano più elevati per i due sessi in aziende che contrattano a livello decentrato, il gap salariale è oltre il doppio di quello registrato nelle imprese che non adottano la contrattazione. Si conferma il ruolo chiave che la contrattazione svolge nel determinare la struttura dei salari, ma i risultati del campione utilizzato mostrano la persistenza di un divario retributivo di genere, e quindi la presenza nel mercato italiano di una segregazione delle donne in settori e posizioni caratterizzati da remunerazioni più basse.
Sul percorso di riforme in corso sul funzionamento del mercato del lavoro, il bilancio delle misure introdotte attraverso i decreti attuativi della legge n. 183/2014 per incentivare la domanda di lavoro può considerarsi positivo, sebbene esso appaia dovuto prevalentemente all’ ”effetto potenziamento” costituito dagli incentivi fiscali per le nuove assunzioni previsti dalle leggi di stabilità 2015 e 2016.
L’utilizzo dei voucher per il lavoro occasionale e accessorio nel periodo dal 2008 al 2015 evidenzia (dati INPS e Ministero del lavoro) una crescita ininterrotta e asimmetrica: il valore dei voucher venduti è cresciuto di 200 volte, ma l’incremento di quelli utilizzati è sensibilmente inferiore. Il rapporto sottolinea l’esigenza (accolta dal Governo) di misure correttive delle modalità di applicazione di tale tipologia occupazionale, a cominciare da quella sulla completa tracciabilità dei voucher.
Inoltre, la gestione delle politiche attive del lavoro, affidata a una logica di rete che coinvolge una pluralità di soggetti pubblici e privati con il coordinamento dell’ANPAL, non può avvenire senza il necessario completamento di una efficiente struttura informatizzata di supporto. Il rapporto evidenzia i vincoli di condizionalità che caratterizzano l’erogazione dei nuovi servizi per l’impiego delineati nella riforma, incentrati sull’impegno e sulla partecipazione attiva dei lavoratori.
Per quanto riguarda l’applicazione del Jobs Act al lavoro pubblico, il rapporto fa il punto sullo stato della normativa sui licenziamenti (individuali e collettivi) nella Pubblica Amministrazione, alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali sul tema della tutela in caso di licenziamento illegittimo.