“E’ necessario unirsi, non per stare uniti, ma per fare qualcosa insieme” sosteneva Goethe, e francamente oggi ci sarebbe molto da fare con questa…attitudine in una situazione economica e sociale in bilico come è quella italiana.
Si avvertono soprattutto due assenze che pesano su una congiuntura che rischia di virare al peggio: quella di riconoscere un ruolo reale alla mediazione sociale nelle scelte di fondo; quella di rimettere concretamente al centro della discussione il valore della persona e del lavoro. In entrambi i casi si dovrebbe invece recuperare una premessa ben diversa: riconoscere ad esempio che esiste oggi una grande opportunità per un sindacato unito dalla proposta e da strategie di partecipazione di svolgere un’azione utile ad evitare avvitamenti pericolosi della nostra economia e della tenuta sociale.
La politica non va in questa direzione: il Governo di destra sempre più si affida alla illusione di un ancoraggio a slogan da “maggioranza silenziosa” e di demolizione di tutto quello che è stato fatto in precedenza ma senza tenere conto della complessità del Paese: la confusione pare divenire di conseguenza la direzione di marcia, infarcita di compromessi, passi indietro, promesse di cambiamento che rimangono tali.
Le opposizioni sono alla ricerca di una loro fisionomia alla quale non bastano certo gli inviti a costruire la casa di tutti i riformisti oppure quelli che inneggiano alla opposizione dura.
Su questo versante siamo insomma ancora in tempi di eclisse della politica, intesa come confronto fra progetti di società, partecipazione, legittimazione reciproca, volontà di affrontare le priorità, uscita da troppi sterili opportunismi. Naturalmente occorre dare tempo al tempo e non disperare sul fatto che si possano consolidare schieramenti politici che siano meglio definiti. In questo senso però, se vogliamo azzardare, la manifestazione di Firenze con Landini, Schlein e Conte al di là del significato immediato, non pare proprio essere un segnale nella direzione della ricostruzione di una sinistra che riparta dall’umanesimo riformista, ma piuttosto l’accentuazione di un movimentismo più radicale (ma per fare cosa?) che può indebolire il movimento sindacale ma, di certo, appare per molti versi indecifrabile. E non è detto neppure che resusciti una voglia di partecipazione duratura e ragionata.
Anche l’uso disinvolto dell’antifascismo per unire “pezzi di sinistra” senza altra assonanza che quella della piazza, potrebbe rivelarsi di corto respiro. In realtà buona parte di quelle sensibilità rifugge sia dal considerare la memoria storica come un terreno di riflessione e una lezione, sia dal ritenere la cultura riformista come il migliore baluardo contro ogni involuzione autoritaria. Proprio un tratto che mancò quando il fascismo, quello vero, si impose.
Pensiamo alla opposizione che fece Giacomo Matteotti prima di essere trucidato: certo contestò duramente le violenze fasciste, ma in realtà fu assai più scomodo per il regime quando denunciò con estrema, implacabile lucidità punto per punto la fallimentare politica economica del governo Mussolini. Perché se si vuole fare davvero opposizione non si può evitare con concretezza di dimostrare iniquità e contraddizioni del disegno complessivo di politica economica e sociale.
Sarebbe bene quindi ricostruire un sistema di rapporti …senza scorciatoie, in grado di rafforzare sia l’impegno sindacale, che per fortuna continua ad essere in larga parte assai concreto, sia una dialettica fra la politica ed il sociale, all’interno del quale le convergenze dovrebbero rappresentare non segnali di fumo ma segmenti di una strategia che impedisca al Paese di ripiegare su se stesso.
Lo scenario che abbiamo di fronte è assai insidioso: l’inflazione di fondo, quella che pagano lavoratori e pensionati in primo luogo, è tuttora alta; la Bce svincolata da condizionamenti dei governi troppo deboli in Europa per indicare una comune politica economica, alza i tassi e aumenta i problemi per i conti pubblici, l’Europa continua ad essere un mercato con una moneta unica ma senza anima politica. I punti forza della nostra economia allora sono sempre più abbandonati a sé stessi o devono affidarsi all’arte antica di arrangiarsi per mantenere quote di mercato internazionale. Ma non sono supportati né da una politica industriale efficace da un sistema Paese che sa quello che si deve fare. Si discute animatamente di salario minimo e di reddito di cittadinanza ma non emergono scelte chiare su come rilanciare la crescita dell’economia meridionale, unica via per evitare alle popolazioni di quelle regioni un interminabile purgatorio assistenziale, oppure per i giovani la fuga all’estero. Gli estremismi ideologici, vedi quelli presenti nell’ambientalismo, bloccano una discussione seria sulla transizione energetica da ripensare dopo quello che sta avvenendo. Dopo le elezioni l’immagine di Paese frenato, al dunque, non è venuto meno, anzi.
Ma quello che più dovrebbe preoccupare è che la politica continua ad essere autoreferenziale in modo smaccato e poco produttivo. Se questo foss il modo per alzare la qualità della politica ci sarebbe davvero da allarmarsi. E non è finita: sotto sotto riemerge una intenzione tardoliberista, favorendo il privato, ma che in realtà ritarda la soluzione di problemi che restano fondamentali, come quelli legati alle politiche del lavoro e alla ricostruzione della sanità.
Come si può riportare la barra della attenzione ai problemi reali del Paese? La via migliore resta quella di spingere le forze politiche ad accettare come terreno prioritario di confronto l’esigenza di misurarsi su una politica economica e sociale che non sia il frutto di interventi contingenti oppure slegati da una visione del futuro del Paese. Impegno molto difficile ma che va tentato perché solo con questo diverso approccio si può tentare di garantire il graduale superamento delle maggiori difficoltà.
Ed è su questo terreno che la proposta del movimento sindacale può giocare un ruolo assai importante senza che possa essere ignorato.
Questo è il tipico momento storico nel quale anche il metodo con il quale si affrontano le questioni diviene sostanza. Ed è un metodo che deve coinvolgere non gli umori, ma la testa ed il cuore delle persone. Non possiamo negare che il tema della rappresentanza nel Paese sia dal punto di vista politico eluso costantemente finora: lo dimostrano le diffidenze dei cittadini nei riguardi della politica, la ricerca disperante di affidarsi a chi possa interpretare un ruolo del tutto opposto alle élite di potere distanti dalla vita reale, la accresciuta scarsa affluenza al voto, la rarefazione di luoghi di discussione. La stessa contrapposizione è vista come un fattore per affermare la propria identità ma nulla di più. Ma questa riflessione porta anche a considerare un fatto non irrilevante: se la rappresentanza politica è ancora oggi “smarrita” ed incerta, sorretta da una opinione pubblica senza riferimenti ideali, quella sindacale invece è assai più stabile e radicata. Ed è questo un punto di partenza da sfruttare perché può garantire al movimento sindacale libertà di movimento, autonomia, possibilità di far valere quelle ragioni del mondo del lavoro che sono anche da sempre ragioni di avanzamento civile e democratico, oltre che improntate a giustizia sociale e contro ogni emarginazione. Del resto, si può sfuggire nell’epoca digitale a rivedere comportamenti, regole, scelte in grado di disegnare un nuovo contesto economico e sociale? Pensiamo solo al tema degli orari che non potranno non comportare profonde mutazioni nel modo di lavorare, nella vita quotidiana, nell’esercizio di diritti e doveri, nel tempo libero.
La prospettiva, comunque, ad oggi non è di quelle che fanno ben sperare, sul piano economico e sociale. Né la speranza di cambiamento può limitarsi a non perdere quel poco di crescita accumulata dopo la pandemia. Occorre recuperare un forte spirito riformatore che può essere inteso in vario modo, ma non certo come pura affermazione di un potere e di un contropotere. Negli anni ’50, gli anni del cosiddetto miracolo economico, lo scontro ideologico e politico fu fortissimo: ma nessuno mise in discussione la direzione di marcia comune che era quella di cancellare le macerie della guerra e del regime fascista. Può sembrare un richiamo nostalgico: invece quella fu la prova politica, ma anche sociale, della possibilità –sia pure fra divergenze evidenti – di garantire al Paese di riprendersi, modernizzarsi, offrire prospettive capaci di mitigare differenze, miseria, sottosviluppo. questo avvenne perché tutti i protagonisti, politici, sociali e sindacali del tempo si dotarono di proposte in quella direzione per migliorare la nostra società in ogni senso. Una lezione che dovremmo non dimenticare mai.
Paolo Pirani
Consigliere Cnel