L’austerità non funziona. A decretarlo, ormai, oltre alle drammatiche statistiche sulla disoccupazione, sulla decrescita, sui redditi, oltre alle analisi dei numerosi istituti nazionali e delle diverse istituzioni internazionali, sono arrivati persino il FMI (con la recente pubblicazione del capo economista Blanchard affiancato da Leigh, in cui si ammette di aver sbagliato i calcoli, le simulazioni, i “moltiplicatori”, sottovalutando l’impatto negativo dell’austerità sulla crescita) e il MIT (in un altro recentissimo working paper a cura di Herndon, Ash e Pollin, in cui si dimostra come i risultati originali della ricerca di Reinhart e Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni per aver evidenziato empiricamente l’esistenza di una correlazione tra un alto rapporto del debito pubblico e la bassa crescita, siano in realtà inficiati da problemi metodologici).
Nonostante la diffusione di studi economici eterodossi, la rapida produzione di intere biblioteche accademiche sulle cause della crisi, l’attenzione pubblica, la ripresa del dibattito sul modello di sviluppo e la centralità politica della discussione sulle cosiddette “strategie di uscita”, a dimostrare tutta l’inefficacia delle politiche messe in campo per la ripresa, soprattutto in Europa, è arrivata prima la realtà. Il divenire della Storia prima del pensiero della Politica. Anche per questo ancora non sono chiari i possibili scenari futuri e le potenziali alternative.
La fragile architettura europea e la governance dell’Area Euro sono sempre più in bilico fra la dissipazione politica e la dissoluzione istituzionale, tra spinte nazionaliste e caparbietà tecnocratiche (e degli interessi costituiti), tra l’incapacità di formulare una nuovo modello sociale europeo e l’improbabilità di realizzare un “sogno che si chiama Unione politica” (come l’ha definito Enrico Letta, nel suo discorso di insediamento come Presidente del Consiglio). Proprio nel momento in cui i capi di Stato e di Governo indicano la necessità di un rafforzamento politico dell’Europa, si registra il minimo del consenso, anche culturale, da parte dei cittadini dei singoli Stati Membri verso la politica europea conosciuta sin qui. Un’Europa unita che impone solo il rigore dei conti, disoccupazione, disuguaglianze, deflazione dei salari e del reddito delle famiglie, ridimensionamento del welfare e dei servizi, non è possibile percepirla come un traguardo cui ambire.
TECNICA POLITICA E POLITICA ECONOMICA
In questo contesto, il messaggio di dicembre 2011 del governo dei tecnici di Monti “l’austerità è una medicina amara che, però, ci porterà fuori dalla crisi” nel tempo è diventato “l’austerità non è la cura, forse non è nemmeno una medicina, è solo amara, ma va fatta lo stesso”, malgrado tale politica abbia aggravato la spirale recessiva e reso più arduo lo stesso processo di risanamento dei conti pubblici. Bisogna, peraltro, considerare la prossima battuta d’arresto che potrebbero subire le economie dell’Area Euro di fronte alle altre grandi aree economiche del mondo (USA, Giappone, Cina e India, America Latina) che stanno immettendo nuova liquidità nelle loro economie e stanno spingendo gli investimenti e l’accumulazione di capitale in seno a progetti dell’economia reale di lungo periodo e, in particolare, verso l’innovazione e i beni comuni. Non a caso le previsioni macroeconomiche dell’Eurozona restano negative e solo 2 paesi su 17 sono dentro i parametri del Fiscal Compact: la Germania, unica col surplus dello 0,2% del PIL, e Italia al filo del deficit al 3,0%. Ecco perché l’ultimo Consiglio europeo ha aperto alla possibilità per molti Stati di “ricontrattare” i tempi del risanamento finanziario, di escludere gli investimenti fissi dal computo del deficit e suggerire linee di indirizzo economico specifiche per contrastare la disoccupazione. In altre parole, l’Europa sta usando parole d’ordine diverse, nel tentativo di infondere fiducia agli attori economici, ma senza cambiare in alcun modo la strategia di fondo, che resta intrinsecamente legata al controllo dei conti pubblici e all’idea liberista di stabilità dei mercati finanziari, cioè al Fiscal Compact, al controllo dell’inflazione e alla competitività delle produzioni (senza svalutazione monetaria). Lo conferma anche il Documento di Economia e Finanza 2013 – predisposto dal Governo Monti in uscita e confermato in toto dal Governo Letta in entrata – che consiglia di portare avanti le cosiddette “riforme strutturali” di riduzione della spesa pubblica, privatizzazione e deregolazione dei mercati (cosiddette liberalizzazioni e semplificazioni) e di impiegare le risorse che ci sono solo per politiche dal lato dell’offerta (a sostegno delle grandi banche e delle imprese esportatrici). In sintesi, nessun cambiamento utile all’Italia per uscire dalla crisi dalla fine del 2011.
L’AGENDA ECONOMICA DEI SAGGI
Il lavoro consegnato al Presidente della Repubblica dai saggi avrebbe dovuto rappresentare una base di programma di legislatura proprio per l’eventuale formazione di un governo di larghe intese. Il conto alla rovescia sulle dimissioni (e l’allora imprevedibile rielezione) del Presidente Napolitano rese stringenti i tempi utili alla commissione dei saggi – di eterogenea estrazione tecnica e, soprattutto, politica – istituita il 30 marzo per produrre i due documenti programmatici richiesti, sostanzialmente di natura istituzionale ed economica. Eppure la “Relazione del Gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea” redatta da 6 dei 10 saggi deputati conta ben 53 pagine di proposte – talvolta superficiali, talvolta contradditorie – sulle emergenze dettate dalla crisi e sulle prospettive che dovrebbe affrontare l’economia pubblica per uno sviluppo “equo e sostenibile” dell’Italia, persino con l’ambizione di influenzare la governance europea. Tutto ciò corredato da una compiuta appendice statistica di altre 30 pagine che, pur tracciando con precisione squilibri economico-sociali e punti di debolezza del sistema-paese, non aiuta l’analisi dei saggi a individuare l’esigenza di un cambio di rotta, deciso e profondo, della politica economica. Non una potenziale agenda del cambiamento, bensì, una “Agenda possibile” (sottotitolo del documento).
D’altra parte, nell’introduzione al rapporto viene esplicitamente dichiarata l’intenzione di non offrire spunti per un programma di governo o per un manifesto politico ma solo un “elenco ragionato di linee per una futura azione di governo in campo economico-sociale-ambientale”, anche di larghe intese. Tuttavia, la selezione delle priorità, la distinzione degli obiettivi di breve e di lungo periodo, la stessa ascrizione della recessione a una congiuntura negativa, l’intenzione di restare nelle direttrici dell’austerità e di non utilizzare l’intervento pubblico e il dialogo sociale come leve per la ripresa sono tutti elementi riconducibili alla politica del governo precedente.
Anche nella continuità, però, sono molte le proposte che potrebbero andare incontro all’interesse e alle piattaforme delle parti sociali, soprattutto in questo momento di ritrovata unità sindacale.
In premessa, viene sottolineata l’importanza della crescita economica in ragione dello sviluppo e del benessere. Tra le proposte per “arrestare la recessione e avviare la ripresa” vengono indicate come priorità la creazione di lavoro, soprattutto giovanile e femminile, il contrasto della povertà il sostegno al reddito delle famiglie, la necessità di una politica industriale. Tra i presupposti di uno sviluppo equo e sostenibile vengono elencate misure economiche e legislative per aumentare l’efficienza e l’innovazione nell’amministrazione pubblica e nei servizi alle imprese e ai cittadini; per migliorare il sistema tributario; per potenziare l’istruzione e il capitale umano; per aprire alla concorrenza e tutelare meglio i consumatori; per favorire la ricerca e l’innovazione; per garantire l’ambiente e l’efficienza energetica.
Ciò nonostante, la differenza la fa la politica. In altre parole, progetti, risorse e modalità di attuazione di una specifica linea di interventi ne determinano la portata e la direzione in cui vanno collocati, ossia la visione politica di fondo. Sin dalla premessa, infatti, i saggi ritengono imprescindibili tre “obiettivi immediati”: coesione sociale e territoriale, tutela dei risparmiatori e rispetto della Costituzione italiana, che vengono poi declinati, rispettivamente, in efficienza della P.A., gestione del debito pubblico e del bilancio dello Stato. E viene così esplicitata la continuità nella rincorsa all’avanzo primario e alla fiducia degli attori economici nell’idea di una ripresa fondata solo sui “fondamentali del sistema economico” (?), in attesa di un allentamento dei vincoli europei e di una migliore programmazione dei fondi europei. Per questa via non ci si allontana da nessuna delle politiche di rigore attuate dal governo dei tecnici e, non a caso, viene destinata all’emergenza lavoro e al sostegno delle persone in grave difficoltà economica esclusivamente “qualsiasi sopravvenienza finanziaria possa manifestarsi nei prossimi mesi”, cioè nulla. Come più volte ripetuto.
Proprio sul lavoro, ad esempio, le indicazioni dei saggi appaiono molto deboli, senza proposte per una nuova regolazione, un’iniezione di risorse o un piano per creare nuova occupazione: il Gruppo di lavoro si limita a suggerire lo strumento del credito d’imposta, la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di vita per le lavoratrici, l’alternanza scuola-lavoro e si spinge a sollecitare miglioramenti delle relazioni industriali (peraltro, già superati dal dialogo tra le parti sociali) sul tema della detassazione della produttività e sulle regole della rappresentanza e della democrazia sindacale.
Altro esempio, sul fisco, si richiama la necessità di una riforma che redistribuisca il carico tributario, evidenziando la necessità di riformare l’IMU (esentando la prima casa, non di lusso, e rendendo l’imposta più progressiva), su cui si è concentrata l’opinione pubblica, ma limitandosi, per tutto il resto, a recuperare la “delega fiscale” del Governo Monti, già valutata dalla CGIL come un’insufficiente prospettiva di riforma della “politica delle entrate”. Basti ricordare che nella delega non vi è nessuna proposta di revisione dell’IRPEF.
Ancora un esempio, nei lineamenti di politica industriale in agenda, si continua a scommettere sull’aumento delle esportazioni e sulla capacità di attrazione degli investimenti esteri, ignorando i “vuoti di domanda” che contraddistinguono la crisi, italiana ed europea. Non c’è alcuna strategia di ricomposizione dell’economia manifatturiera verso settori ad alta intensità tecnologica e di conoscenza. Non viene esposta nessuna distinta misura economica o giuridica per la crescita dimensionale delle imprese. Non c’è un quadro di interventi per espandere i confini dell’economia italiana verso i nuovi settori del terziario avanzato. Le linee d’intervento su ricerca e innovazione, come sulla concorrenza, restano un titolo. L’evocazione della “qualità” delle produzioni non assume nessuna caratteristica specifica, soprattutto per quanto concerne il lavoro e l’innovazione dei processi o dei prodotti.
IL PROGRAMMA DI GOVERNO
In realtà, molte novità e pochi riferimenti espliciti all’agenda dei saggi sono presenti nel discorso del neo Presidente del Consiglio Enrico Letta per indicare la strada che dovrà percorrere il governo di larghe intese.
Prima di passare all’illustrazione delle riforme della politica e delle istituzioni, il discorso del Presidente si muove su tre direttrici economiche: l’Europa, la crescita e il lavoro. L’ordine non è affatto casuale. Il primissimo dato economico citato, infatti, è il debito pubblico italiano, proprio per ribadire che non andrà contraddetto “il grande sforzo di risanamento compiuto dal precedente Governo, guidato dal senatore Mario Monti”. L’unico spiraglio di cambiamento si intravede nell’uscita dalla procedura di disavanzo eccessivo per recuperare margini di manovra – sempre ben specificando “all’interno dei vincoli europei” – magari per cambiare la tassazione sulla prima casa (anche qui, il peso dell’inevitabilità di una discussione sulle modifiche dell’IMU portano ad annunciarne la sospensione a giugno e la revisione nei mesi successivi), rifinanziare la CIG in deroga, evitare l’aumento dell’IVA programmato dal governo dei tecnici, risolvere il problema degli “esodati” e dei precari della P.A., sbloccare il pagamento dei debiti della P.A., incentivare nuove assunzioni. Tutte risposte di breve periodo, che gran parte del paese e delle parti sociali hanno richiesto. Nulla che porti l’Italia fuori dalla recessione. Niente per il medio e lungo periodo. Appare senza dubbio credibile l’impegno di Enrico Letta a “individuare strategie per ravvivare la crescita senza compromettere il processo di risanamento della finanza pubblica” nelle sedi europee e internazionali. Ma è insufficiente. Questa prima parte del discorso finisce, appunto, sottolineando che “le premesse macroeconomiche sono quelle dell’Euro e della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi”.
La parte del “programma” di Letta dedicata alla crescita colma molti dei singolari vuoti che i saggi avevano lasciato e offre spunti interessanti per una nuova politica economica (oltre le già citate misure d’emergenza): svolgere una ferrea lotta all’evasione e ridurre le tasse sul lavoro, in particolare su quello stabile e dei giovani neo assunti; rilanciare il futuro industriale del Paese, scommettendo su innovazione e ricerca, soprattutto nei nuovi settori di sviluppo, come ad esempio l’agenda digitale, le nanotecnologie, l’aerospaziale, il biomedicale; investire su ambiente ed energia; rilanciare il turismo e, soprattutto, attrarre investimenti sulla cultura; valorizzare e custodire il paesaggio, l’arte, l’architettura, le eccellenze enogastronomiche, le infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali e persino il patrimonio sportivo. Il tutto con un importante accento per il Mezzogiorno. Tuttavia, questa “strategia complessa” viene descritta in funzione di una nuova politica dell’offerta, prevalentemente privata – con esplicita attenzione soprattutto a banche e imprese – puntando ancora una volta a “superare gli annosi ritardi dell’Italia in termini di crescita della produttività e della competitività”, dunque eludendo i problemi strutturali dell’economia italiana sul versante della domanda aggregata e, nello specifico, della distribuzione del reddito e della ricchezza, dei consumi interni e degli investimenti (pubblici e privati). Sottovalutare i “vuoti” della domanda porta, perciò, il Presidente Letta a riprendere molte delle linee di riforma già attivate, pur in assenza di risultati in termini di crescita e sviluppo del Paese di fronte a una crisi di questa portata: ad esempio, la giustizia, l’apprendistato in questo caso, facendo riferimento alle modifiche alla legge Fornero suggerite dalla Commissione dei saggi), riduzione del costo del lavoro, stimolo all’imprenditorialità.
Il lavoro viene definito come la priorità del Governo Letta. E sembrano molti i punti di avanzamento nella rubrica delle politiche per l’occupazione: valorizzare il lavoro autonomo e le libere professioni, occupazione giovanile e femminile, la riforma del welfare per un sistema “più universalistico e meno corporativo”, ammortizzatori sociali per i precari e persino forme di reddito minimo. Anche qui, però, nulla che faccia riferimento a un forte impiego di energie e risorse, pubbliche e private, per una politica espansiva e una domanda di competenza in grado di porre le basi di una crescita dell’occupazione, soprattutto giovanile e femminile. La stessa strada europea tracciata dal programma Youth guarantee – che anche la CGIL vorrebbe sviluppare – in Italia può voler dire tutto e niente, ovvero politiche attive e “lavoro di cittadinanza”, oppure dispersione di risorse nella formazione e nella debole rete dei centri per l’impiego.
In un articolo del Financial Times del 5 maggio 2013, Wolfgang Munchau afferma che “Enrico Letta ha inveito contro l’austerità, ma allo stesso tempo ha sottolineato il suo impegno per rispettare gli obiettivi di bilancio dell’Italia, come se le due cose fossero in qualche modo non correlate”. Secondo Munchau l’Italia probabilmente si atterrà al piano di riduzione del deficit strutturale, ma, poiché la crescita economica sarà inferiore a quella prevista in precedenza, c’è una buona probabilità che i disavanzi nominali supereranno gli obiettivi europei: “per raggiungere tali obiettivi, l’Italia avrà bisogno di enormi avanzi strutturali per quasi una generazione. Quindi, se si vuole far cessare l’austerità, è necessario iniziare abrogando il Fiscal compact.”
CONCLUSIONI
La profondità della crisi che stiamo attraversando e i fattori di debolezza strutturale del declino italiano richiedono un grande progetto per il Paese, che segni una direzione opposta all’austerità, che scelga la crescita come via del risanamento e il lavoro come fattore dello sviluppo. Occorre un piano che agisca, da un lato, direttamente sul versante della domanda, attraverso la creazione diretta di buona occupazione giovanile e femminile per produrre innovazione e gestire i “beni comuni”, dall’altro, sull’offerta, attivando investimenti pubblici e privati all’insegna dell’innovazione e della sostenibilità. È tanto importante quanto possibile partire dalle arretratezze del sistema-paese, dai bisogni dei cittadini, per sviluppare la domanda interna e qualificare intere filiere produttive e diversi comparti contemporaneamente (trasporti, energia e reti, patrimonio artistico-culturale, assetto idrogeologico, urbanistica, ciclo dei rifiuti, edilizia sostenibile, ecc.). Un tale progetto è possibile sin da ora e si realizza qualificando e selezionando la spesa pubblica e spostando i pesi del prelievo fiscale su rendite e patrimoni a vantaggio di lavoro e investimenti. La CGIL lo ha chiamato Piano del Lavoro. Prima il Governo si rende conto che al Paese serve una nuova politica economica, meglio è.
di Riccardo Sanna e Gaetano Sateriale