Da un lato, gli scandalosi 280 euro al mese per dieci ore di lavoro al giorno, offerti a una ragazza che poi ha denunciato il tutto su TikTok. E che al clamore suscitato dal suo video, divenuto virale, ha risposto: “di che vi stupite, siamo tantissimi in queste condizioni”. Dall’altro lato: le 307.000 dimissioni volontarie censite dall’Inps nel primo trimestre dell’anno (quasi tutti addii a contratti a tempo indeterminato) e, in parallelo, le centinaia di aziende che non trovano addetti da assumere, si tratti di manovali o ingegneri, informatici o cuochi, tutti ugualmente irrintracciabili. La questione dei bassi salari si lega spesso con la rivoluzione silenziosa che sta mettendo sottosopra il mondo del lavoro italiano, ma attenzione: non si tratta solo di questo, sarebbe superficialità credere che quello che sta accadendo possa ricondursi soltanto ad aziende rapaci che pagano poco e assumono precariamente.
Nel gran rifiuto che sempre più italiani, soprattutto giovani (le dimissioni riguardano per il 70% trentenni o poco più) oppongono a quella iniziale maledizione biblica che affermava “tu lavorerai con fatica”, poi assurta a diritto fondamentale fin dall’articolo 1 della nostra costituzione, c’è molto altro. Qualcosa ancora non ben definibile, ma che mettendo insieme le ormai moltissime indagini, ricerche, saggi, articoli e notizie quotidiane, può riassumersi così: il lavoro sta cambiando, ma prima ancora del lavoro stanno cambiando i lavoratori. Ai quali non basta più solo una retribuzione decente ma vogliono, oltre al pane, anche le rose.
In altre parole, oggi si vuole un lavoro che realizzi aspettative e passioni, riconosca competenze e tendenze, che permetta di fare carriera ma anche, nel caso, di non farla, venendo incontro alle scelte individuali di ciascuno. Un lavoro che consenta di vivere nel senso più ampio, non solo in termini di stipendio ma riconoscendo a tutti e a ciascuno la propria individualità, che prometta appagamento personale e crescita. “Più felici, realizzati, liberi”: la rivendicazione delle operaie tessili americane del 1912, citata da Marx, ritorna in chiave moderna.
Basta parlare con qualunque capo del personale di una qualunque azienda per scoprire quanto sia sempre più difficile assumere, quanto nei colloqui siano sempre più numerosi coloro che all’azienda chiedono cosa sia disposta a dare, in cambio di un pezzo non piccolo della loro vita. Ripeto, non stiamo parlando solo di soldi: la risposta “no grazie, preferisco cercare qualcosa che mi sia più congeniale’’ non è rara, a prescindere dalla paga offerta. E se al momento si tratta ancora di numeri non colossali, va considerato che le cose cambiano in fretta. Lo si può intuire, per esempio, osservando la cosa dal punto di vista demografico: nei prossimi anni l’Italia si ritroverà con 5 milioni di persone in età da lavoro in meno, e con 5 milioni di vecchi in più. E questo nel migliore degli scenari. Per le aziende rintracciare la mano d’opera necessaria sarà sempre più arduo, la concorrenza sarà spietata. Le imprese più attrattive “vinceranno” i lavoratori necessari, le altre, quelle che non sapranno farlo, dovranno ridimensionarsi. Non è il solito scenario distopico: è quello che leggiamo ogni giorno sui quotidiani, è quello che negli Usa accade ormai da molti mesi. Anche da noi la maggior parte delle cosiddette grandi dimissioni sono in realtà cambi di lavoro: si lascia un posto che non si ama e se ne trova un altro “più congeniale”.
Inutile dire che tutto questo spiazza non solo le imprese, ma anche gli stessi sindacati, interpreti di un modello di rappresentanza che sta via via diventando meno aderente ai nuovi interessi dei rappresentati. A guardarla in prospettiva, il rischio è che si vada verso una individualizzazione del rapporto di lavoro, basato su una trattativa sempre più diretta tra le aziende e i lavoratori, fino a mettere in crisi il modello di relazioni industriali che conosciamo.
Le aziende se ne stanno accorgendo, e qualcuna corre ai ripari. Una risposta, sia pure ancora parziale, a questo problema, è arrivata nei mesi scorsi dall’Enel, con il testo battezzato Statuto della persona, discusso recentemente anche in un interessante seminario al quale hanno preso parte esponenti del sindacato, esperti e giuslavoristi. Cosa dice lo Statuto della persona: sostanzialmente, è un manifesto di principi sui quali dovrà basarsi il rapporto tra lavoro e impresa, alla luce delle nuove esigenze di entrambi. Una cornice all’interno della quale si possono rintracciare gli spazi per realizzare una forma di contrattazione che riesca a essere sia collettiva, sia individuale, e dunque più aderente allo spirito del tempo e alla richiesta di valorizzazione delle singole persone. Luigi Sbarra, leader della Cisl, ha già dichiarato che vorrebbe trasferire lo Statuto in tutti i contratti nazionali, e anche in Cgil si guarda con interesse al testo. Guido Stratta, capo del personale Enel e in qualche modo “padre” dello Statuto, nella prefazione al testo non nasconde l’ambizione di farne una sorta di aggiornamento di quello maggiore firmato nel 1970 da Gino Giugni, mettendo al centro la partecipazione, rivedendo i cardini della prestazione lavorativa, abolendo la logica del controllo a favore della produttività.
Se sarà sufficiente a dare risposte al problema della grande fuga dal lavoro (peraltro, va detto, dovuta anche al fortissimo processo di svalorizzazione che il lavoro stesso ha subito in questi anni) è presto per capirlo. Ma è un tentativo concreto per sommare il pane alle rose, ottenendo come risultato dell’addizione la tanto auspicata e necessaria produttività. Senza la quale, va ricordato, si rischia di non avere né il pane, né le rose.
Nunzia Penelope