di Francesco Buccellato*
Perché parlare del nuovo schiavismo? La rilevanza socio economica del fenomeno è tutt’altro che marginale, ma permane nondimeno una certa resistenza ad affrontare il problema; e vengono così trascurati i segnali evidenti di una situazione molto grave.
I dati sono più che allarmanti: l’ultimo rapporto Ilo indica che sono oltre 21 milioni gli schiavi al mondo, di cui una consistente parte bambini; e la parola schiavo non evoca solo figurativamente quanto credevamo archiviato nei libri di storia, ma riferisce, in termini tecnici (quelli stabiliti a partire dalla convenzione Ilo 29/1930) della condizione di chi presta attività lavorativa sotto minaccia di una pena (fisica, psicologica, finanziaria), costretto e, una volta sotto comando, impossibilitato a lasciare un lavoro prestato senza sostanziale retribuzione. Questi i numeri, ma credo evidente a tutti che essi aumenterebbero in misura esponenziale guardando a ciò che è prossimo alla riduzione in schiavitù, pur considerando le sole violazioni di particolare gravità, rilevanti con riguardo alle norme penali interne di tutela e protezione della persona (e del lavoro).
Ho cominciato ad occuparmi di forced labour (l’espressione inglese rimanda subito all’inevitabile aspetto globalizzato del fenomeno) dopo aver assistito a un lavoro teatrale su Iqbal Masih, eroe pakistano della lotta contro il lavoro schiavizzato, assassinato nel ’95, ancora bambino, dalla mafia dei tappeti: “la storia di Iqbal raccontata dai ragazzi, per la regia di Enrica Origo, è ora parte della più ampia iniziativa Parlaci di Iqbal, e il lavoro teatrale – più gruppi di bambini e ragazzi, a succedersi negli anni gli uni gli altri sulla scena in una staffetta teatrale che “moltiplica la consapevolezza” (l’espressione è di Camillo Arcuri) – è un tutt’uno con il ripetuto incontro con Ehsan Ullah Khan, il fondatore e leader del BLLF (Bonded Labour Liberation Front) che, dopo aver riportato alla condizione di uomini migliaia di schiavi, tra cui Iqbal, dalla morte di questi vive esule in Svezia, nella pressoché totale indifferenza della comunità internazionale.
Il linguaggio di quel teatro riesce a restituire emozionalmente il senso tragico di quanto accade; ma credo che poche semplici domande a proposito degli interessi sottesi al forced labour diano modo a ciascuno di approcciare altrimenti la questione.
Nel 68% dei casi di ricorso al forced labour – vale a dire per oltre 14 milioni di persone – si parla di sfruttamento del lavoro in attività economiche (fonte Ilo). Su quali mercati si riversa e quale è la committenza della produzione cui sono legati questi milioni di schiavi? Si tratta dei mercati dei Paesi occidentali? Quali i soggetti all’origine della filiera produttiva? Quale rilevanza assumono sui mercati del lavoro tali volumi? Che relazioni sussistono tra le evidenze cui tali quesiti rimandano e talune delocalizzazioni di imprese – intendo quelle ristrutturazioni aziendali che, con le più diversificate forme organizzative, abbattono i costi di produzione sfruttando il minor costo di approvvigionamenti acquisiti da strutture operative in Paesi che non assicurano la minima tutela del lavoro?
Risposte giungano da chi di competenza, gli economisti innanzitutto; ma nessuno può intanto sottrarsi ad un confronto con le tragiche evidenze della cronaca. Dal crollo del palazzo in Bangladesh dove, stipati come in un formicaio, in migliaia realizzavano la produzione di note multinazionali del tessile, ai tanti suicidi negli stabilimenti cinesi che lavorano e producono per più che noti marchi leader dell’elettronica, ai casi nostrani del distretto di Forlì sulle produzioni del mobile imbottito (v. infra), fino al rogo di Prato, vengono gravi e pressanti interrogativi. In primis per il mondo del lavoro, che non sembra trovare risposte da far valere nelle vertenze al ribasso che subisce (quasi una nemesi per le conquiste sindacali del secolo scorso); come si legge, il mercato globale, la competizione globale non consentono … etc. etc..
Al giurista il compito di cercare di decifrare questa situazione, attraverso la rilettura delle norme di diritto interno e internazionale, per individuare una linea di demarcazione tra ciò che all’imprenditore è consentito fare e ciò che non gli è permesso; in concreto per capire se il ricorso al forced labour, nell’organizzazione di un’impresa sempre più scomposta nei suoi elementi strutturali, possa trovare adeguate sanzioni. La risposta affermativa al quesito potrebbe concorrere a far riconsiderare le premesse di scelte di politica industriale affermatesi per la sola cinica convenienza dei numeri.
Su tali basi, è forse dunque di qualche concreto interesse dar qui conto di un percorso di lavoro intrapreso, dei risultati conseguiti e delle prospettive che si aprono nell’individuazione di strumenti di contrasto del forced labour.
Due riferimenti basilari: in primo luogo la Direttiva dell’Ue (la 2011/36/EU) che vincola gli stati membri all’adozione delle necessarie misure affinché il trafficking in human beings – vale a dire ogni pratica di reclutamento di persone per finalità di sfruttamento – sia adeguatamente sanzionato (direttiva di recente parzialmente attuata ad opera del D. Lgs. 4 marzo 2014, n.24) e, in secondo luogo, un caso giurisprudenziale, un’importante sentenza del Tribunale (penale) di Forlì del 2012 (ora in Diritto del commercio internazionale, Giuffrè, n.1/2014, con nota di chi scrive), che sanziona alcuni imprenditori, operativi nel distretto della produzione del mobile imbottito, per gravi violazioni riscontrate (attenzione) presso le sedi dei terzisti; laddove il dato macroeconomico segnalava che la grave e crescente contrazione del numero di ditte artigianali e maestranze locali specializzate nella produzione artigianale per conto terzi si andava realizzando a tutto a beneficio di nuove compagini che, pur di diritto italiano, erano per intero espressione di immigrazione cinese.
Su tali premesse, ho cercato di esplorare le possibili macro aree di intervento su base interdisciplinare, chiedendo poi a più colleghi di differenti atenei di verificare, ciascuno per la sua competenza, talune specifiche possibili prospettive. Come già riferito da questa testata, un primo approfondimento è stato proposto in una recente giornata di studi alla Sapienza di Roma; ed entro la fine di questo anno è prevista la pubblicazione di un testo organico.
Osservo che è ricorrente l’affermazione che non spetta certo a chi fa impresa porsi questioni di tutela del lavoro nei c.d. Paesi in via di sviluppo, quando esse sono di competenza di Stati che, nella loro sovranità, per primi sembrano rifiutare un percorso di adeguamento a standard internazionali minimali di protezione del lavoro. Non è infrequente una lettura economicistica di questa situazione, a comprendere, se non giustificare, il rifiuto della c.d. clausola sociale (cioè il vincolo al rispetto delle suddette condizioni minimali), dal momento che quella delle negate tutele (e dunque del nuovo schiavismo) sarebbe una inevitabile fase storica in un processo di crescita di questi Paesi, processo favorito proprio dal vantaggio concorrenziale che quella “politica del lavoro” assicura. Se e chi benefici effettivamente dell’arricchimento legato a tale presunta crescita è questione che, in fondo, sembra interessare meno.
Dal punto di vista giuridico, le cose stanno un po’ diversamente. E’ certo acquisito all’analisi che taluni Paesi svantaggiati, nel corso dei negoziati Gatt del ’47, rifiutarono che nei trattati fosse inserita per esplicito la clausola sociale; ma sembra parimenti recepito il fatto che il General Agreement on Tariffs and Trade, alla base dell’intero sistema dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, non possa che esser letto alla luce degli accordi e trattati internazionali che affermano e impongono il pieno rispetto dei diritti della persona, diritti che vengono di certo gravemente violati dal ricorso al forced labour. L’atteggiamento omissivo o permissivo al riguardo, da parte di taluni Stati sovrani, non può costituire dunque pretesto per invocare giustificazioni di sorta.
Quali le possibili aree di intervento?
In primo luogo occorre considerare che la responsabilità riconducibile all’imprenditore va tendenzialmente estendendosi fin dove lo stesso esercita il controllo, avendone giuridicamente o di fatto il potere; ne è un esempio la citata sentenza del Tribunale di Forlì. Certo, riferito al caso qui oggetto di esame, questo principio soffre certamente dei condizionamenti che un’organizzazione della produzione su base sovranazionale determina, risultando di difficile pratica l’imputazione al soggetto committente di atti e comportamenti riferibili a soggetti terzi che figurano, anche solo indirettamente, come subfornitori operativi in aree soggette a giurisdizioni estere. E’ anche per questo che, valorizzando talune indicazioni della direttiva richiamata, si prospetta come concreta alternativa la possibilità di sanzionare come ricettazione l’acquisto diretto o indiretto di manufatti realizzati attraverso modalità delittuose.
Così impostata la questione, da parte di chi gestisce l’impresa sembra dovuto il rispetto di specifici codici comportamentali, al fine di evitare le conseguenze di tale ultimo reato che, in quanto ricompreso nell’elenco per cui opera il c.d. modello 231, apre a gravi sanzioni non solo per la persona (fisica) che lo commette, ma anche (e qui assume particolare significato) per la compagine societaria di riferimento.
Una seconda area di intervento è quella delle regole di Mercato. Non solo il ricorso al forced labour altera la concorrenza e configura dunque i presupposti per un’azione di concorrenza sleale (si auspica anche ad istanza della associazioni di imprenditori), ma incide gravemente anche sul c.d. rapporto di consumo; pertanto la consapevolezza della scelta del consumatore dovrebbe esser protetta riguardo a comportamenti illeciti dell’impresa che, ove conosciuti, potrebbero escludere la decisione d’acquisto. Il sistema normativo non sembra allo stato sufficientemente strutturato per dare protezione effettiva a tale interesse del consumatore; salvo pei casi in cui si riscontri da parte dell’impresa la sottoscrizione di codici etici o di condotta, che costituiscono oggi passaggio obbligato delle politiche di policy di ogni società che intenda qualificarsi sul mercato attraverso l’adesione a standards di responsabilità sociale d’impresa. E’ l’autorità garante della concorrenza e del mercato il soggetto istituzionale che, in una prospettiva non certo lontana, potrà vigilare nei sensi suddetti sullo svolgimento di corretti rapporti di mercato.
E’ del 20 maggio u.s. il nuovo Rapporto ILO PROFITS and Poverty: The Economics of Forced Labour; nel renderlo pubblico Guy-Ryder, direttore generale dell’Istituto, soggiunge che dobbiamo interrogarci sul ruolo della domanda oltre che dell’offerta. La prospettiva mi sembra corretta visto che, secondo le indicazioni fornite nel rapporto, i profitti illeciti generati annualmente dal forced labour sono divenuti tre volte superiori a quelli stimati nel precedente rapporto.
Nella foto sopra, Ehsan Ullah Khan, a Lahore, in Pakistan, nel 1988: verrà il giorno che, qui in Occidente, potremo dire di aver spezzato le catene di cui, direttamente o indirettamente, siamo responsabili?
*avvocato a Genova / ricercatore di diritto commerciale presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Perugia