Un vero a proprio salto nel buio. È questa la condizione della contrattazione nella sanità privata, afferma l’avvocato Giovanni Costantino, dello studio Costantino & partners e capo delegazione Aris, l’associazione datoriale delle strutture sanitarie religiose. Le entrate delle strutture accreditate con il Ssn, dice, sono ferme da troppo tempo e questo rende anche difficile rinnovare i contratti. Il salario minimo, spiega Costantino, non serve vista l’elevata copertura della contrattazione collettiva. Più preoccupanti sono, invece, gli ultimi pronunciamenti della Cassazione che permettono al giudice di individuare altri criteri rispetto a quelli presenti nei contratti collettivi nazionali per definire un salario dignitoso. Questo è una sfiducia nei confronti della contrattazione
Avvocato Costantino, qual è lo stato dell’arte della contrattazione nella sanità privata?
Come prima cosa quando parlo di sanità privata faccio riferimento alle realtà accreditate con il Servizio sanitario nazionale. Le entrate di queste strutture sono determinate secondo i criteri e nel rispetto dei budget stabiliti dalle regioni, fermi da troppo tempo nella maggior parte dei casi. È evidente che, a risorse invariate, le strutture non possano sistematicamente far fronte all’incremento dei costi, soprattutto nell’attuale fase di inflazione legata all’incremento dei prezzi dei beni energetici. Tuttavia, è ciò che avviene da oltre un decennio, senza che le strutture, che erogano un servizio di rilevanza pubblica, abbiano mai tagliato le prestazioni. È chiaro, però, che a lungo andare la stabilità del sistema viene meno. Questo comporta dei ritardi anche per i rinnovi dei contratti nazionali. Perché mentre nel pubblico prima si definiscono i finanziamenti e poi si firmano i nuovi contratti, alla sanità accreditata si chiede di rinnovare i contratti senza alcuna rete di protezione. E questo è un vero e proprio salto nel buio.
Ma dei contratti si sono comunque firmati.
Esatto. Aris, ossia l’associazione datoriale delle strutture sanitarie religiose di cui sono capo delegazione, e Aiop, che rappresenta le imprese profit, hanno rinnovato il contratto nel 2020 per i dipendenti delle strutture private. L’intesa è stata trovata sulla base di valori economici uguali a quelli del contratto della sanità pubblica. Un risultato che avevamo raggiunto grazie anche alla promessa delle regioni di farsi carico al 50% degli aumenti. Ma in questi tre anni, tutte le regioni hanno a mano a mano disatteso questo impegno.
Perché la trattativa per il rinnovo del contratto delle Rsa e dei Centri di riabilitazione non decolla?
Il contratto delle Rsa e dei Centri di riabilitazione è in stallo proprio per le ragioni dette prima. I costi sono cresciuti ma non le risorse. Consideri che le tariffe per gli utenti sono ancora ferme ai prezzi del 2013.
Come giudica la manovra sul capitolo sanità?
Da quello che si può vedere i numeri non sono incoraggianti. C’è un taglio di 1,3 miliardi di risorse, e la spesa in rapporto al Pil sarà del 6.6% nel 2023 e del 6,2% nel 2024, quando la media dei paesi Ocse si attesta all’8%. In tutto questo è ancora poco chiaro capire che cosa resterà per la sanità privata.
In che modo valuta il documento del Cnel sul salario minimo?
Il documento del Cnel sul salario minimo parte delle indicazioni della direttiva europea, la 2041 del 2022, che invita i paesi a ricorrere a un salario minimo stabilito per legge o alla contrattazione, dove questa sia presente e diffusa, per contrastare il lavoro povero. Nelle conclusioni del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro si afferma che la contrattazione copre, in Italia, il 90% dei lavoratori e che solo lo 0,3% è all’interno del perimetro dei contratti pirata. Quindi la conclusione, sulla base di queste premesse, che non serva un salario minimo mi sembra perfettamente logica, visto che i minimi dei contratti sono superiori ai 9 euro l’ora, e questo anche nella sanità privata con i contratti non rinnovati.
Si potrebbe virare per una legge sulla rappresentanza?
Anche una legge sulla rappresentanza non sarebbe necessaria, visto il numero esiguo dei lavoratori che hanno contratti in dumping e per i quali si può intervenire per legge. Semmai il problema che io intravedo è un altro.
Quale?
A ottobre ci sono state due sentenze gemelle della Cassazione, la 27711 e la 27769, che sul principio dell’articolo 36 della Costituzione, hanno stabilito che il diritto per tutti di una vita dignitosa non deve contemplare solo la soddisfazione dei bisogni materiali primari, ma anche attività ricreative. Ma il punto più importante espresso dalla Cassazione è che il giudice, per stabilire un giusto salario per una vita dignitosa, può fare riferimento anche a criteri ulteriori rispetto a quelli contenuti dei contratti collettivi maggiormente rappresentativi.
C’è quindi una sorta di sfiducia nella contrattazione?
Diciamo di sì. C’è, quanto meno, un ribaltamento di paradigma perché non è più la contrattazione che fa da apri pista alla giurisprudenza sul lavoro, ma il contrario. Insomma, questa strada non fa bene alla contrattazione, ma neanche a chi sostiene un salario minimo orario, perché ogni giudice può indicare una soglia diversa. Si arriverebbe così a una definizione del rapporto di lavoro non più collettivo ma soggettivo. Detto questo una soglia minima determinata dal legislatore non sarebbe una soluzione valida per garantire una vita dignitosa in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
Perché?
Perché il costo della vita tra nord e sud ha un divario del 25%. Dunque, non ci può essere un valore economico piatto e uniforme per tutti, perché se la retribuzione, in termini assoluti, è la stessa a Milano e Palermo o in un piccolo paese di provincia, non ovunque consentirebbe di garantire un’esistenza dignitosa al lavoratore.
Dunque la soluzione è il ritorno alle gabbie salariali o a una scala mobile modulata?
Non proprio, ma individuare, attraverso dei parametri che l’Istat o un altro ente possono certificare, un’indennità per il lavoratore al fine di poter far competere la sua retribuzione con il costo della vita di quell’area.
Anche un rafforzamento della contrattazione di secondo livello potrebbe essere una strada?
Certamente.
Ma in questo modo il contratto nazionale avrebbe un ruolo ridotto solo alla parte normativa?
Non solo, perché potrebbe recepire queste indennità e questi parametri e trasferirli alla contrattazione.
Venendo alla querelle tra il Cnel e i sindacati, lei che cosa ne pensa?
Che Brunetta e la Cgil si fidano poco l’un dell’altro, fin da quando il presidente del Cnel ricopriva il ruolo di ministro della Pubblica amministrazione.
Tommaso Nutarelli