Sono le 5 e 31 del mattino, e Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, twitta una sola e semplice parola: Deal! Accordo. Il complesso e lungo negoziato sul Recovery Plan giunge così a una conclusione. E a uscirne vincitori sono un po’ tutti: l’Italia, i cosiddetti paesi “frugali” e l’Europa. Il Vecchio Continente si scrolla di dosso la ruggine e lo scetticismo che negli ultimi anni l’aveva contraddistinto, anche a causa di alcune scelte non lungimiranti, come la gestione della crisi greca o l’eccessivo rigore nell’affrontare la tempesta scatenatasi attorno ai debiti sovrani nel 2011.
Un’Europa vacillante, chiamata a governare l’articolata vicenda dei flussi migratori nel Mediterraneo, che ha negoziato con il non liberale Erdogan il dramma dei profughi siriani, che ha dovuto incassare il colpo della Brexit e le critiche degli euroscettici, che sembravano continuamente moltiplicarsi. Un’Europa chiamata a difendersi dall’ostilità dell’America di Trump, dalla longa manus della Russia di Putin e dalla politica fagocitativa della Cina di Xi Jinping.
Con questo accordo ne usciamo tutti più forti. Almeno questo è l’auspicio. Nel compromesso – parola invisa ai sovranisti, che la leggono come una rinuncia all’esercizio muscolare della forza da parte del proprio paese, ma che invece dovrebbe essere l’essenza della politica intesa mediazioni di più interessi – che ha ridisegnato il nuovo Recovery Plan, dei 750 miliardi complessivi, 390 sono a fondo perduto e 360 in prestiti agli stati. All’Italia andrà il 28% del totale, 208,8 miliardi, quasi 40 in più rispetto ai 170 stabiliti inizialmente.
Certo la partita non è vinta. Ora si dovrà decidere come spendere questi soldi, cosa nel quale il nostro paese forse non ha mai primeggiato. Ai detrattori di un’Europa lontana, manovrata dai burocrati, è bene ricordare la nostra incapacità di saper sfruttare appieno l’enorme potenziale dell’Unione europea. Solitamente, in un rapporto, le colpe non mai a carico di una sola parte. Oltre alla sfida di mettere a frutto le ingenti risorse che arriveranno da Bruxelles, la pandemia dovrebbe averci insegnato che tentare di perseguire una strada in solitaria non ci porta da nessuna parte.
Chi gioca a fare il sovranista dovrebbe sapere che c’è qualcun’altro ancor più sovranista. C’è sempre un pesce più grande. Così come il nostro amico sovranista non dovrebbe stupirsi e lamentarsi che la sua economia venga messa a rischio dai dazi del sovranista Trump. E quando arriveremo a un vaccino contro il covid, il sovranista nostrano non si crucci se il sovranista americano, ungherese, inglese o francese non sia felice di condividerlo con lui.
Il peggior nemico di un sovranista è un altro sovranista. Tra i due non ci può essere solidarietà. E, infine, se il nostro amico sovranista volesse ritagliarsi un po’ di tempo nel quale leggere il Leviatano di Hobbes, capirebbe che una politica internazionale incentrata sullo scontro e il non riconoscimento dell’altro si conclude, naturalmente, con un unico esito: la morte di uno dei due leviatani.
Tommaso Nutarelli