Sta succedendo qualcosa nel mondo del lavoro che fatichiamo a capire. Il fenomeno è globale, almeno in Occidente, e addirittura vistoso in America. L’hanno chiamato la Great Resignation, le grandi dimissioni, ma potremmo anche chiamarla la Grande Fuga: nonostante una ripresa rovente, le aziende faticano a ripristinare gli organici. Statisticamente, il tasso di occupazione non riesce a tornare ai livelli pre-Covid. Concretamente, il numero di occasioni di lavoro in sospeso è a livelli record.. Che succede? Nessuno lo sa. Paura di contagiarsi se si torna al lavoro, forse. O desiderio di trovare un posto migliore, un’attesa resa possibile dai sussidi erogati da Biden in questi mesi. Anche in un mercato tradizionalmente assai mobile e fluido, come quello americano, il livello della Grande Fuga appare, insomma, anomalo. Ma il punto è che il fenomeno si riflette anche al di qua dell’Atlantico, in mercati del lavoro assai più rigidi e imbalsamati di quello americano. La pandemia sembra aver scatenato una riflessione generale, forse una voglia di rimettersi in gioco, di rimescolare le carte a disposizione. Lo vediamo finanche in un mercato del lavoro ingessato come quello italiano. In mesi in cui si è fatto tutto il possibile per puntellare e congelare l’occupazione, fra blocco dei licenziamenti e cassa integrazione, i lavoratori hanno continuato a riassestarsi per proprio conto.
Nel secondo trimestre del 2021, su 2 milioni e mezzo di contratti di lavoro che risultano ufficialmente cessati, 500 mila non sono licenziamenti, ma dimissioni volontarie. Gli esperti non credono che si tratti, se non in percentuale modesta, di dimissioni obbligate, ovvero di licenziamenti mascherati. In buona sostanza, un lavoratore su cinque, fra quelli che hanno lasciato l’azienda, lo ha fatto per una propria scelta. In realtà, il fenomeno riguarda solo uno spicchio del mondo del lavoro, probabilmente non il più indicativo. In Italia, l’occupazione è sempre più precaria, part time o a tempo determinato: la stragrande maggioranza dei movimenti dentro o fuori le aziende (lavoratori scaricati e lavoratori assunti) avvenuti in questi mesi riguardano il grande universo del precariato. I dati sulle cessazioni dei contratti si limitano a censire, invece, la fetta privilegiata del mondo del lavoro, quella dei contratti a tempo indeterminato. Ma, proprio per questo, il fatto che una quota significativa di lavoratori abbia deciso di abbandonare la ridotta protetta di un contratto fisso indica qualcosa di profondo in movimento: una riallocazione spontanea della risorsa lavoro, almeno della sua parte professionalmente più forte.
Il dato sulla primavera 2021 non sembra essere un’anomalia. Almeno in un’area di mercato del lavoro dinamica come il Veneto, la Grande Fuga è continuata anche durante l’estate. Nel terzo trimestre, le dimissioni volontarie risultano più numerose, nella regione, dell’11 per cento rispetto al periodo pre pandemia. E’ un fenomeno trasversale: riguarda uomini e donne, giovani e vecchi, italiani e stranieri. E non si tratta di manodopera irrequieta e volatile. L’aumento delle dimissioni volontarie è più significativo (più 23 per cento) per posizioni occupate almeno da un anno, per lavoratori, cioè, ormai radicati in azienda. I suoi meccanismi non sono facilmente decifrabili. Si potrebbe pensare che la Grande Fuga interessi, in particolare, i settori più in crisi. Un cuoco, una guida turistica, un bagnino, di fronte alla caduta di attività del proprio settore cerca fortuna altrove, in settori più dinamici. E’ la riallocazione della forza lavoro che si aspettava, ad esempio, un recente studio di Bankitalia. Invece, non è così: le dimissioni volontarie risultano in forte aumento soprattutto nei servizi sociali e di assistenza e, in misura significativa, anche nelle aziende metalmeccaniche, ovvero i settori usciti meglio dalla crisi. Ristagnano, invece, nel turismo. Parallelamente, risultano più frequenti nel Centro Nord che nel Mezzogiorno.
In generale, la ripresa sembra essere stata capace di fornire nuove occasioni di lavoro. Ovvero, più che la Grande Fuga dal lavoro, i dati italiani indicato una grande fuga da “quel” lavoro. Lo confermano i dati del Veneto: nel giro di 30 giorni, più di metà dei lavoratori che si sono autolicenziati ha trovato un altro posto, un tasso di turnover anche superiore al 2018-2019. Se escludiamo gli over 54, più vicini alla pensione, il tasso di ricollocazione immediata è anche più alto: 62 per cento. Insomma, due lavoratori su tre sapevano già dove andare. Ancora una volta, è decisivo il livello di ripresa economica del settore: i tassi di ricollocazione a 30 giorni superano il 60 per cento nell’industria meccanica, nella logistica, nei servizi sociali, ma toccano appena il 40 per cento nel turismo. Si muove chi ha qualificazioni professionali da spendere meglio nel post pandemia: infermieri, camionisti, informatici. Camerieri e baristi, che ne avrebbero più bisogno, fanno invece molta più fatica.
Proprio per questo, i dati offrono una doppia lettura. Per un verso, indicano un positivo risveglio dell’economia: anche se riguardano i privilegiati del posto fisso, dimissioni e rioccupazione segnalano un mercato del lavoro che ricolloca in modo più efficiente le proprie risorse. Ma, confinato ai più privilegiati dei privilegiati (contratti fissi in settori in ripresa) ancora poco aiuta quella grande transizione – da posto precario a posto fisso, da settore in crisi a settore in ripresa, da bassa qualifica a alta qualifica – di cui l’economia italiana ha bisogno per ripartire con il fiato lungo.
Maurizio Ricci