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Home - Approfondimenti - La nota - Le fabbriche metalmeccaniche, il grande rimosso dell’emergenza virus

Le fabbriche metalmeccaniche, il grande rimosso dell’emergenza virus

di Nunzia Penelope
12 Marzo 2020
in La nota

  

Lo slogan è bello, ha avuto successo,  e’ stato ripreso da tutto il mondo. ‘’Restate a casa’’, oppure ‘’Io resto a casa’’, nelle due versioni, è diventato l’emblema della lotta al contagio da Covid 19, rilanciato da politici, influencer, star del cinema o della canzone, eccetera. Eppure c’e’ un’area del paese, molto vasta, che non può, anche volendo, accodarsi allo slogan, ed e’ quella che lavora nelle fabbriche manifatturiere, in particolare metalmeccaniche.  In pratica, mentre tutta italia si barrica come può, nelle aziende i ‘’dannati del virus’’ sono costretti a continuare a lavorare, ogni giorno, come nulla fosse, al massimo protetti da qualche mascherina. Sono probabilmente, al momento, la fetta di popolazione a maggior rischio contagio, ma bizzarramente non sono mai entrati a far parte del dibattito politico  mediatico sul  coronavirus.

La questione delle fabbriche e’, insomma, il grande rimosso dell’emergenza. Mentre ci si ingegna a costruire zone rosse o arancioni piu’ o meno rigorose, dettagliando l’elenco delle attività commerciali che possono restare o meno aperte, sulle fabbriche si sorvola, come se non fossero un problema. E invece lo sono. Rispettare il fatidico metro di distanza, per esempio, regola applicata con rigore in ogni negozio, panettiere, farmacia, banca, eccetera, in una fabbrica non e’ quasi mai possibile.

La prossimità fisica negli spogliatoi in cui gli operai si cambiano per infilare i panni da lavoro, il contatto obbligato al cambio dei turni, i bus con i quali si raggiungono le fabbriche, le postazioni di lavoro stesse: tutto è esattamente il contrario di quello che occorrerebbe per arginare il contagio. Con limiti che sono a volte strutturali, come nel caso delle ‘’isole’’ FCA sulle quali lavorano 4 persone a  contatto di gomito, o degli elicotteri Agusta, sui quali anche si lavora in uno spazio molto ristretto che impossibile rispettare il metro di distanza;  ma a volte, spessissimo, sono culturali, come nel caso dell’azienda che si era premurata, in effetti, di distribuire le mascherine ai suoi dipendenti;  ma poi la sera le ritirava e le infilava tutte insieme in un sacchetto, per ridistribuirle a caso il mattino dopo. A chi tocca tocca, alla faccia dell’isolamento e della disinfezione.

E se fin qui si parla di grandi aziende, nelle piccole si può immaginare cosa accade. Moltissime lavorano come se nulla fosse, zero prevenzione, zero dispositivi di protezione.Si puo’ fare qualcosa per migliorare tutto questo? certo,. Ma occorre rallentare, o addiruttura fermare, la produzione, per poter inserire norme di sicurezza. Per tornare all’esempio Fca precedente: invece di quattro persone su un “isola” ne potrebbe lavorare una sola, con un rallentamento della produzione stessa ma anche delle possibiita’ di contagio. I sindacati hanno lanciato vari allarmi, in questi giorni., chiedendo per l’appunto questo: rallentiamo, fermiamoci, studiamo insieme cosa si puo’ fare. Dapprima la categoria dei metalmeccanici, la Fim Cisl in testa, e la Fiom; poi, unitariamente, le tre confederazioni hanno scritto ai presidenti di tutte le associazioni datoriali, e per conoscenza al premier Conte, chiedendo di lavorare insieme per trovare una soluzione. Ma nessuna risposta e’ arrivata.

Ieri, pero’, e’ arrivato il decreto tris col quale il governo impone la chiusura di tutti i negozi, bari, ristoranti, eccetera, su tutto il territorio nazionale, salvando solo una serie di esercizi autorizzati a restare aperti, dagli alimentari ai tabaccai.  Sulle fabbriche, invece, ancora una volta poche parole vaghe. Il risultato e’ che, fin da ieri sera, nelle fabbriche del nord e’ iniziato un tam tam che stamattina ha portato ai primi accenni di rivolta, scioperi spontanei proclamati da  lavoratori sempre piu’ impauriti. Spesso a ragione, talvolta forse a torto, ma in ogni caso, col clima che circola nel paese, impedire di avere paura e’ sciocco oltre che impossibile.

Tanto piu’ che gli appelli dei virologi, e dello stesso governo, si concentrano tutti sullo stesso mantra: ‘’state a casa’’. Ok, ma perche allora noi no?, si chiedono nelle fabbriche. Di qui, appunto, gli scioperi spontanei, avvenuti oggi in Lombardia, Piemonte, Emilia. Di qui anche il comunicato-ultimatum di Fiom, Fim e Uil, dove si chiede la chiusura di tutte le fabbriche metal meccaniche fino a domenica 22 marzo, in modo da poter, quanto meno, adeguare le strutture e l’organizzazione del lavoro alle norme basilari di sicurezza.

E’ altrettanto evidente, tuttavia, che fermare le fabbriche significherebbe la paralisi del paese, ben piu’ grave di quella che gia’ oggi l’Italia sta soffrendo. Con ripercussioni anche sugli approvigionamenti di merci e servizi di qualunque genere. Infatti i sindacati non vorrebbero arrivare a tanto, ma, nel contempo, ritengono fondamentale salvaguardare la salute dei lavoratori e del paese nel suo complesso.

“Da giorni, dicono infatti i sindacati,  stiamo provando a non bloccare le produzioni, cercando le soluzioni più adeguate, consapevoli dei costi umani ed economici, a partire dalla Lombardia e dalle altre aree più colpite; ma la gran parte delle aziende non sono ancora del tutto preparate a gestire questa emergenza. I lavoratori sono giustamente spaventati, e una risposta va data’’.Anche per evitare, appunto, che le fabbriche si trasformino in un serbatoio di contagio permanente. Meglio chiudere due, tre settimane, che poi dover chiudere per mesi, a causa di contagi a tappeto tra i dipendenti, spiegano ancora i sindacati.

Dalla fermata, ovviamente, resterebbero escluse le aziende che svolgono servizi pubblici essenziali e quelle che producono materiali sanitari, nonché i lavoratori, adeguatamente protetti, che garantiscono la salvaguardia degli impianti e quelli già collocati in smart working.  Ma per tutti gli altri, Fiom Fim e Uilm chiedono di concordare  fermate produttive “coperte” innanzitutto con strumenti contrattuali o con eventuali ammortizzatori social. In mancanza di una soluzione concordata, non resterà altro che quella che i sindacati definiscono “’astensione unilaterale nazionale nell’intero settore merceologico”, a prescindere dal contratto utilizzato. Vale a dire uno sciopero generale del settore, senza limitazione di orario e  tempo, finche’ non saranno prese tutte le misure di sicurezza possibili.

Nunzia Penelope

Nunzia Penelope

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Vicedirettrice de Il Diario del lavoro

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