Giugno sarà un mese caldo per la siderurgia italiana. E questo indipendentemente dalle cangianti condizioni metereologiche di questa incerta primavera Sarà un mese caldo perché, nel giro di un paio di settimane, si inseguiranno alcune scadenze decisive per i grandi produttori di acciaio del nostro Paese.
Mercoledì 4 giugno scade il mandato, peraltro rinnovabile, conferito l’anno scorso a Enrico Bondi affinché si assumesse l’onore e l’onere di guidare l’Ilva; e ciò in conseguenza delle varie iniziative giudiziarie che avevano messo in mora non solo il vecchio Emilio Riva, ma anche i suoi eredi. Due settimane dopo, e cioè mercoledì 18 giugno, termina invece il tempo utile entro cui le imprese, o le cordate di imprese, eventualmente interessate a rilevare la ex-Lucchini, dovranno ultimare le loro due diligence. Da giovedì 19 si avvierà dunque la procedura di cessione e dovranno essere presentate le eventuali offerte vincolanti. Stiamo insomma parlando di momenti di grande importanza per Taranto e per Piombino, ovvero – dopo la chiusura di Bagnoli e il ridimensionamento di Cornigliano -, per ciò che rimane della produzione italiana di acciaio a ciclo integrale.
A ciò si aggiunga che, sempre in giugno, i lavoratori dell’Alcoa di Portovesme potrebbero tornare a sfilare per le vie di Roma, allo scopo di richiamare per l’ennesima volta l’attenzione dei poteri pubblici sul destino di quello che è stato il maggior polo italiano di produzione di alluminio (e qui siamo passati alla metallurgia non ferrosa).
Infine, bisogna tenere presente che è ancora del tutto incerto il futuro di Terni, cioè del più importante centro di produzione di acciai speciali del nostro paese.
E’ anche in vista di queste scadenze che, in questa settimana, le imprese e i lavoratori attivi nel settore metallurgico hanno riunito i loro stati maggiori. Martedì 20 maggio, a Milano, si è tenuta l’Assemblea annuale di Federacciai. Oggi, venerdì 23, si è invece tenuta a Roma l’Assemblea delle Rsu delle imprese produttrici di acciaio e alluminio, organizzata dai sindacati dei metalmeccanici: Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil.
Premesso che sul che fare il dibattito è ovviamente aperto, si può tuttavia rilevare che il quadro analitico tracciato dalla relazione milanese di Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, come dagli interventi romani di Marco Bentivogli, Maurizio Landini e Rocco Palombella – rispettivamente segretari generali di Fim, Fiom e Uilm – è condiviso per ampi tratti.
In particolare, i sindacati dei metalmeccanici hanno rilevato, nel documento approvato alla fine della loro riunione, che “a livello mondiale è in atto un gigantesco processo di ristrutturazione e di assestamento del settore siderurgico”. Un processo che favorisce i produttori dei paesi emergenti per due motivi. Primo, perché in questi paesi la domanda di acciaio è in crescita. Secondo, perché questi produttori godono di vantaggi competitivi quali un più basso costo delle materie prime e dell’energia, un basso costo del lavoro e un’incidenza assai minore di vincoli ambientali.
Nel frattempo, a causa della crisi, il consumo di acciaio nei paesi dell’Unione Europea “e’ sceso in media del 30% rispetto al 2007”, mentre la capacità produttiva “è stata ridotta di 20milioni di tonnellate/anno” ed è previsto il taglio di altri 10 milioni di tonnellate/anno. Inoltre, si è già persa la bellezza di 40mila posti di lavoro.
Altro punto in comune fra le due assemblee è la profonda insoddisfazione per quanto fatto, o non fatto, dai Governi che, in questi anni tumultuosi, si sono succeduti alla guida del nostro Paese. Ora qui c’è un’osservazione di fondo che va fatta. E’ del tutto prevedibile che, in una prolungata situazione di crisi, come quella attraversata dal settore manifatturiero del nostro paese nell’ambito della pluriennale crisi economica esplosa a livello globale nel 2008, imprese e sindacati finiscano per trovarsi accomunati nelle proteste contro l’inefficacia delle politiche avviate senza successo dai vari Esecutivi per contenere o ribaltare cause ed effetti della crisi stessa. Ma, nel caso della siderurgia italiana, c’è una specificità che va colta e sottolineata. Una specificità che è, assieme, storica e territoriale.
Nel triangolo che va da Ravenna, a Verona, a Bergamo, per scendere poi di nuovo verso Sud, e che comprende quindi Brescia e Mantova, la crisi è meno grave. Si tratta della vasta area nordestina in cui, a partire dagli anni Cinquanta, si è sviluppata la siderurgia del forno elettrico, cioè quella che, per produrre acciaio, parte dal rottame e non dal minerale. Non per caso, sull’assemblea milanese vegliavano come numi tutelari i volti, riprodotti in effige, di uomini come Steno Marcegaglia, Roberto De Miranda, Luigi Lucchini ed Emilio Riva. Uomini che, come ha osservato Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore” del 21 maggio, “non sono nati ricchi, ma hanno fatto diventare l’Italia un paese ricco”. E ciò grazie al modello industriale che hanno costruito, quello “basato sul medium-tech e su una innovazione di processo”, quella appunto del forno elettrico, che “ha cambiato la siderurgia” anche a livello internazionale.
La crisi morde invece duramente, anche se con dinamiche e percorsi assai diversi, nel mondo dell’ex Finsider, ovvero in quella collana di centri siderurgici integrali che, in base al famoso “piano Sinigaglia”, erano cresciuti lungo le coste della penisola dopo la fine della Seconda Guerra mondiale e, producendo acciaio – a partire dal minerale – con i loro imponenti altoforni, avevano dato un decisivo contributo alla tasformazione dell’Italia in un grande paese industriale.
Ora il punto è che i problemi, anche drammatici, vissuti oggi da parte sostanziosa della siderurgia italiana, affondano le loro radici in anni precedenti al palesarsi della crisi globale, e cioè nella fase in cui fu chiusa l’esperienza delle imprese a partecipazione statale e fu avviata la stagione delle privatizzazioni. Infatti, ciò che ha inficiato i processi di privatizzazione è stato il problema tipico del capitalismo italiano: la relativa sottocapitalizzazione delle grandi imprese italiane. Lucchini prese Piombino, Riva prese Taranto, mentre una cordata di vari imprenditori prese Terni. Tre privatizzazioni andate male. Ed ecco che, dopo alterne e complesse vicende, oggi il disastro è sotto i nostri occhi. L’altoforno a Piombino è stato spento. L’Ilva di Taranto produce più debiti che profitti. Il destino della Ast di Terni è nelle mani di non si sa chi.
Di tutto questo non sono certo responsabili né Monti, né Letta, né tantomeno Renzi. Ma, come si diceva sopra, è inevitabile che i rappresentanti delle imprese e dei lavoratori si rivolgano al Goveno in una situazione di crisi. Concludendo la loro assemblea romana, in particolare, i sindacati dei metalmeccanici hanno quindi chiesto “l’immediata convocazione del tavolo di settore”, precisando che, senza tale convocazione, le Segreterie nazionali dei tre sindacati dovranno assumere adeguate “iniziative di mobilitazione”. E nel primo pomeriggio si è quindi diffusa la notizia che una riunione si terrà al ministero dello Sviluppo economico nella giornata di giovedì 29 maggio.
Certo è che, tra vincoli europei e spinte globali, trovare la via per risolvere, anche se solo parzialmente, i problemi sofferti oggi dalla siderurgia a ciclo integrale non sarà facile. Ma quello che deve essere chiaro è che, problemi occupazionali a parte, dalla capacità di salvare Taranto e Piombino, e di dare a Terni il futuro che le spetta, dipendono in misura non secondaria le sorti dell’intero sistema manifatturiero del nostro paese.
Fernando Liuzzi