Il settore dei tessili è pronto a scioperare. Come hanno spiegato i sindacati di categoria, nel corso della conferenza stampa, le trattativa per il rinnovo del contratto tessile/abbigliamento scaduto il 31 marzo 2016, è ormai fermo. Durante la conferenza, le parti sociali hanno spiegato le ragioni del blocco della trattativa, avvenuta lo scorso 20 ottobre, e annunciato l’avvio delle mobilitazioni per rinnovare un contratto che coinvolge oltre 420mila addetti.
I segretari nazionali di Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil che seguono il settore sono partiti dall’elenco dei vari nodi che hanno portato la rottura del tavolo: la richiesta da parte di Sistema Moda Italia (Smi) di ridefinire il modello contrattuale, gli incrementi salariali, il decentramento al 2° livello di orari e classificazione, la riduzione delle ferie degli impiegati, l’intervento sui 3 giorni di carenza per malattia, il pieno recepimento del Jobs Act, l’intervento sulla Legge 104 e sul nuovo sistema classificatorio.
In particolare, la richiesta di Smi di ridefinire il modello contrattuale e le posizioni sul salario sono, secondo i sindacati di categoria, incomprensibili. “Smi ci ha chiesto – ha spiegato la segretaria nazionale Filctem Cgil, Stefania Pomante – in relazione ai livelli di inflazione, non solo un incremento economico di zero euro sul prossimo triennio e la restituzione da parte dei lavoratori di circa 70 euro per il precedente triennio, ma in più ci hanno chiesto che, a differenza degli anni passati, gli aumenti salariali si verifichino ex-post, cioè alla scadenza di ogni anno”
Secondo i sindacati, il nodo cruciale è il cambio del modello contrattuale e il calcolo del salario legato all’inflazione. “Il modello proposto da Smi – sottolinea il segretario nazionale Uiltec Uil Riccardo Marcelli – sembra il ripristino di una scala mobile. La proposta è comprensibile in questa fase di bassa deflazione, ma nel momento in cui tutti quanti speriamo in una ripresa dell’inflazione, il modello che ci offrono sarebbe, secondo noi, pericolosissimo. Inoltre, dobbiamo considerare che in questo modo si nega la contrattazione e si ripristina un qualcosa che negli anni passati è stata definita una “abiura” del modo di fare sindacato e di gestire le situazioni di crisi e non.”
Per comprendere bisogna fare qualche passo indietro. Normalmente, hanno spiegato i segretari, le parti rinnovavano i contratti sulla base previsionale dell’inflazione. Allo scadere del triennio, le parti si incontravano nuovamente e valutavano gli incrementi e l’andamento del settore, correlando l’inflazione prevista con quella reale. Oggi invece Smi, hanno proseguito i sindacalisti, non vuole più prevedere l’inflazione insieme alle parti sociali. In pratica, alla fine di ogni anno le parti osservano l’inflazione: se è zero, zero aumenti; se c’è deflazione i lavoratori restituiscono i soldi; se cresce, le parti datoriali aumentano i salari.
Ma non si è parlato solo di salario. Come ha sottolineato Pomante “un contratto nazionale non è mai solo frutto dell’inflazione. Ragioniamo di normative, di orari, di modelli, di flessibilità, di competitività”.
Lo stupore dei sindacati di categoria si è poi spostato sulla ridefinizione del modello contrattuale: “Non è di nostra competenza ridefinire il modello, – chiariscono i segretari – se ne occupano le confeerazoni. Noi rappresentiamo i lavoratori del nostro settore, che hanno, sì, facoltà di rinnovare il loro contratto ma non di cambiare un modello contrattuale che per definizione riguarda tutti i lavoratori, cioè i metalmeccanici, gli elettrici”.
Inoltre, ha spiegato il segretario nazionale della Femca Cisl, Mario Siviero, “non si può contare troppo sulla contrattazione integrativa di azienda, ,perché questa raggiunge solo il 20% della categoria. Questo significa che il restante 80% dei lavoratori, che è purtroppo fuori dalla contrattazione aziendale, vive solo grazie al salario”.
Infine i sindacalisti hanno cercato di spiegarsi il perché di tanto accanimento. “Potremmo ipotizzare, hanno detto, che con queste richieste, in un settore così vulnerabile dove il 90% dei lavoratori è composto da donne, che notoriamente in Italia hanno stipendi più bassi di tutti gli altri settori, si provi a condizionare l’esito della futura trattativa interconfederale”. Insomma, come suggeriva Giulio Andreotti, a pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina.
Emanuele Ghiani