Per capire il presente, e forse anche per prevedere il futuro, è spesso utile consultare il passato. Esattamente un anno fa, nel giugno 2019, i metalmeccanici invadevano le piazze d’Italia per chiedere ”un futuro per l’industria”. Lo sciopero, spiegavano Fiom, Fim, e Uilm nei comunicati ufficiali, nasceva “dalla sempre maggiore incertezza sul futuro, a causa della contrazione della produzione industriale”. I sindacati chiedevano il rilancio degli investimenti, pubblici e privati; denunciavano “la mancanza di una qualsiasi idea di politica industriale” nel governo, dimostrata anche dall’aumento vertiginoso delle crisi irrisolte al Mise, dalla pila di dossier aperti e mai chiusi sempre più alta, dalla Whirlpool all’ex Ilva, all’ex Alcoa, eccetera. Crisi specifiche a parte, praticamente tutti i settori principali dell’industria risultavano in arretramento, dal tessile ai macchinari, fino al vero e proprio crollo dell’auto. Ne risentiva di conseguenza l’occupazione: ad aprile 2019 l’utilizzo della cassa integrazione era aumentato del 78% rispetto all’anno prima e del 79% sul mese di marzo, e ci si avviava a battere il record con un milione di ore nel corso dell’intero 2019.
Ieri, giugno 2020, i metalmeccanici erano di nuovo in piazza a Roma. In forma ben diversa dagli affollatissimi cortei di un anno fa, solo qualche centinaio in tutto, ordinatamente seduti e distanziati sotto un palco microscopico, in virtù delle regole ferree anticontagio. Ma il succo era lo stesso. In dodici mesi, tra giugno 2019 e giugno 2020, è cambiato tutto, il mondo si è rivoltato, la pandemia ha fatto strage di ogni certezza, di ogni punto di riferimento conosciuto. E tuttavia, le crisi industriali sono ancora quelle, ricorrono gli stessi nomi, Whirlpool, Ilva, Alcoa; nel governo ricorre la stessa incapacità di governarle; nel sindacato ricorrono le stesse richieste, politica industriale, investimenti, difesa dell’occupazione, ammortizzatori sociali.
Ci si potrebbe chiedere: ma se nel governo di allora non c’era la capacità di gestire il day by day delle crisi, in un tempo che si può definire ”normale” rispetto a quello che stiamo vivendo, come si può immaginare che oggi, nell’orizzonte sconvolto della post pandemia (e sempre augurandosi che ”post” non sia un termine eccessivamente ottimistico), lo stesso governo sia in grado di creare una politica industriale con una visione di lungo periodo, come chiedono i sindacati e come, peraltro, sarebbe necessario al paese?
Vale forse la pena di ricordare che nel giugno 2019 a palazzo Chigi sedeva il Conte uno, retto dalla maggioranza giallo verde, e oggi, dodici mesi dopo, c’è invece il Conte bis, retto dalla maggioranza giallo rossa. Nel mezzo c’è stato il ribaltone di agosto, il post Papete che ha scalzato la Lega dalla maggioranza di governo e l’ha sostituita con il Pd. Ma su fronte del lavoro e dell’industria non è cambiato molto: nei due ministeri chiave, Mise e Lavoro, siedono esponenti dei 5 stelle come un anno fa, Patuanelli e Catalfo hanno preso il posto di Di Maio, ma la linea è sempre la stessa, così come lo stile nell’affrontare -o non affrontare- i problemi. Che come abbiamo visto sono sempre quelli, ma amplificati enormemente dal lungo lockdown che ha bloccato la nostra economia.
Sempre nel gioco del ”come eravamo”, vediamo cosa accadeva un anno fa sul fronte opposto ai sindacati, nelle loro controparti. In Confindustria a fine maggio 2019 si teneva l’ultima assemblea di Vincenzo Boccia. Nella sua relazione il presidente quasi uscente rivolgeva un appello alle forze sociali e politiche per una collaborazione in nome del bene del paese. ‘’Un atto di generosità”, lo aveva definito, che guardi al futuro delle giovani generazioni e che coinvolga tutti, parti sociali e politica, maggioranza e opposizioni: “costruiamo insieme un programma serrato che faccia radicalmente mutare la percezione sull’immobilità dell’Italia e che ci permetta di affrontare il confronto con i partner europei sul bilancio e sul debito da pari a pari, forti di un progetto credibile e concreto”.
Inutile dire che non si realizzò alcun patto tra maggioranza e opposizione, e che per diversi motivi si si bloccò anche l’implementazione del Patto della fabbrica stipulato in precedenza da Confindustria e sindacati. Un anno dopo in Confindustria c’è un nuovo presidente, Carlo Bonomi, che ha modi assai diversi dall’educato Boccia, e che ha preso di petto il governo fin dal suo esordio. E tuttavia, anche Bonomi, in qualche modo, sembra stia cercando di riproporre esattamente quell’unione di tutte le forze che il suo predecessore riteneva necessario già un anno fa. Così come i sindacati, che a loro volta oggi tornano a chiedere un ”patto” che ci risollevi dalla crisi.
La pandemia non era ovviamente prevedibile, ma sarebbe interessante chiedersi come sarebbe ora il quadro del paese, della sua economia, del suo tessuto sociale, se non ci fossimo trascinati dietro, in dodici mesi (ma in realtà da anni) sempre gli stessi problemi. Il nostro principale guaio, in fondo, è proprio questo: in Italia non cambia mai niente, i temi restano gli stessi, cosa occorre fare lo sanno tutti, ma non si fa, non si risolve, ci si rimpallano le emergenze da un anno all’altro, si spera sempre che qualcosa arrivi e ci salvi. E se fin qui ce la siamo cavata, adesso è forte il rischio che arrivi, invece, qualcosa che ci affondi del tutto. Non sarebbe, insomma, il momento di darsi tutti una mossa? Se non ora, quando?
Nunzia Penelope