Il welfare state italiano continua ad essere in profonda sofferenza. A causa degli scarsi investimenti pubblici in ambito sociale e dei complessi mutamenti socio-demografici in atto, Stato, Regioni e Comuni faticano a risponde efficacemente alle necessità vecchie e nuove dei cittadini. Al contempo, tuttavia, cresce e si rinforza il secondo welfare, visivamente sempre di più paragonabile a un albero, sia per la varietà di declinazione che ha assunto nel corso del tempo, sia per la platea di attori, profit e non profit che lo stanno animando.
È questo lo scenario descritto nel Quarto Rapporto sul secondo welfare in Italia, presentato ieri a Milano, realizzato da Percorsi di secondo welfare, Laboratorio afferente al Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino e realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.
Nel complesso, si legge nel Rapporto, l’Italia, come il resto dei paesi avanzati, sta attraversando profonde trasformazioni, che riguardano il mondo produttivo e la dimensione sociale e demografica. Davanti a queste sfide il welfare state italiano è caratterizzata da un forte disallineamento. Nel 2018 la spesa per il sociale ha assorbito il 48,4% del Pil. Non c’è dunque un deficit di risorse, quanto piuttosto uno sbilanciamento nel loro utilizzo, indirizzato, principalmente, alla componente previdenziale, e meno ai giovani e alle politiche per la famiglia. La voce che ha subito il maggior ridimensionamento è stata quella relativa all’assistenza sanitaria (6,5% del Pil nel 2018), e più in generale le politiche sanitarie hanno visto una forte riduzione, passando dal 26,2% del 2008 al 23,1% del 2016 e 2017, in controtendenza con il resto dell’Europa.
In questo contesto, si rafforza la spesa privata delle famiglie per le cure, che nel 2018 ha quasi raggiunto la soglia dei 40 miliardi. Naturalmente non tutti i nuclei hanno la forza per sostenerla autonomamente, accrescendo il numero di persone che ha rinunciato alle cure che, secondo l’Istat, si attestano a 4 milioni. Un’altra strettoia per l’accesso alla sanità pubblica è caratterizzata dalle liste di attesa.
Ulteriori lacune e difficoltà del sistema pubblico sono legate alla capacità di mettere in campo risposte adeguate ai fenomeni demografici, al progressivo invecchiamento delle popolazione e al crescente bisogno di politiche per la non autosufficienza e il long term care.
Forti criticità persistono anche nel mercato del lavoro. Nel 2018 il tasso di disoccupazione si attesta al 10,6%, quattro punti in più rispetto alle media europea. Inoltre ci sono ancora forti diseguaglianze legate al genere, all’età e al territorio di riferimento. In altre parole i più penalizzati continuano ad essere i giovani, le donne – l’occupazione femminile è pari al 49,5% contro il 67,8% di quella maschile – e le regioni del Mezzogiorno.
Ed è proprio nel mondo del lavoro che si stanno avendo alcune delle manifestazioni più significative e longeve del secondo welfare, con il welfare contrattuale e quello aziendale, che negli ultimi anni hanno visto una crescita costante grazie anche politiche di defiscalizzazione introdotte dal legislatore.
Secondo i dati diffusi dai report periodici del ministero del Lavoro tra il 2015 e il 2019 sono stati 49.944 accordi sui premi di risultato, di cui 13.443 ancora attivi. Se a giugno 2017 gli accordi ancora in vigore che prevedevano la possibilità, per i lavoratori, di convertire il valore dei propri premi in benefit e servizi di welfare erano solo il 28% del totale, a giugno 2019 questa quota è salita al 53,5% (7.193 dei 13.443 contratti ancora in vigore in quel momento). Il numero di dipendenti interessanti da una misura di welfare gestita da provider sarebbe passato, secondo l’Associazione italiana welfare aziendale, dal mezzo milione del 2015 ai 2 milioni del 2018.
Altri dati ci vengono forniti sia dai sindacati che dalla parte datoriale. Secondo il 4° Rapporto dell’Osservatorio della contrazione di secondo livello della Cisl (2018), la quota di contratti territoriali e aziendali contenenti misure di welfare sarebbe aumentata al 18% nel periodo 2014-2015 al 27% nel biennio successivo (2015-2016), fino al 32% nel 2017.
Anche il Primo rapporto sulla contrattazione di secondo livello curato dalla Cgil (2019) documenta una crescita della quota di contratti riguardanti il tema del “welfare integrativo” dal 22,8% del 2015 al 27,2% osservato nel 2017.
Una survey realizzata dal Centro Studi di Confindustria fra marzo e maggio 2018 fra 4.207 aziende ha rilevato che circa il 58% delle associate garantiva almeno un servizio di welfare ai propri dipendenti. La misura di welfare più diffusa è l’assistenza sanitaria, con quasi la metà delle aziende (44%).
Sul versante della contrattazione collettiva, a partire dal 2016 il Rapporto indica 13 contratti nazionali che presentano misure di welfare, su un totale di 457 censiti da Inps e Cnel. Per quanto riguarda di secondo livello, l’Ocsel certifica una crescita degli accordi con almeno una misura di welfare, passati dal 22% del 2016, al 33% del 2017 fino al 38% del 2018. Permangono, tuttavia, forti diversità dovute alla dimensione aziendale e alla collocazione territoriale. Solo il 26% delle imprese con meno di 50 addetti ha attivato forme di welfare e il Nord si conferma il cuore trainante, con il 69% degli accordi stipulati, contro il 2% del Sud. Una forte disparità è data anche dai settori produttivi, con il comparto metalmeccanico che ha visto siglati più della metà degli accordi. Sanità integrativa (28%) e previdenza complementare (24%) si confermano le misure più richieste. Ma sempre più attenzione stanno avendo anche tutti gli strumenti per conciliare al meglio vita privata e lavorativa.
Non mancano, tuttavia, forti criticità. Come detto dimensione, collocazione territoriale e settore produttivo sono delle varianti che incidono molto sulla possibilità, per i lavoratori, di accedere a forme di welfare. Questo acutizza la disparità tra gli insider del mondo del lavoro, ben tutelati, rispetto agli outsider o ai mindsider, i lavoratori discontinui. Inoltre molte aziende si trovano a erogare il welfare attraverso buoni, alimentando forme di consumo distanti dal welfare.
In tutto questo, spiega il Rapporto, le parti sociali possono giocare un ruolo molto significativo. La crescente presenza del welfare nella contrattazione da ai sindacati la possibilità di indirizzarne lo sviluppo, con processi non più limitati al perimetro dell’azienda e dei suoi dipendenti, ma con delle ricadute anche sul territorio. Sempre di più il welfare diviene un elemento capace di rispondere ai bisogni e alle incertezze dei lavoratori, incidendo e trasformando i processi lavorativi oggi in atto.
Nel complesso dunque assistiamo a una articolazione sempre più ampia del secondo welfare, che si sta consolidando sotto il profilo organizzativo ed economico, dove gli attori privati e quelli del terzo settore daranno vita a sinergie sempre più strette con il pubblico. Il secondo welfare può diventare dunque uno dei motori principali per governare le grandi trasformazioni in atto, sociali, economiche e tecnologiche, benché gli attori coinvolti siano capaci di limitare i rischi e le criticità presenti al suo interno.
Tommaso Nutarelli