La sensazione che ormai la nave sia alla deriva e che il punto di non ritorno sia prossimo quasi una certezza. Ma come giustamente mi faceva notare una mia amica, la fiducia nei nostri pensieri e nelle nostre credenze, così come l’ovvietà che attribuiamo a determinate posizioni, nascono dal fatto che, come la maggior parte delle persone, siamo portati a circondarci di coloro con i quali sentiamo una certa affinità politica, culturale ed emozionale. E quando scaturisce il confronto, avviene sempre all’interno di un orizzonte di regole e valori condiviso. Più difficile, ma, per certi aspetti, più stimolante e necessario, è quel confronto con chi usa un linguaggio totalmente diverso dal nostro, nel quale l’ovvio assume una tonalità e una collocazione del tutto diversa, con chi ha dunque una visione del mondo agli antipodi rispetto alla nostra.
Per me era abbastanza ovvio ritenere che un leader politico, ex ministro e con un grande appeal mediatico, non potesse citofonare alla porta di un privato cittadino, con uno stuolo di cronisti al seguito, e chiedere se in quella casa abitasse uno spacciatore, sulla base di una voce raccolta per strada. Tutto questo non lo ritenevo possibile neanche nelle mie più licenziose fantasie politiche. Ma, come dice il vecchio detto, mai dare nulla per scontato.
Sull’annosa questione di come accorciare i tempi della giustizia ecco il tribunale del popolo made in Lega. Si raccoglie la presunta denuncia e, forti dell’investitura popolare, si citofona a casa del colpevole. Ma non si era innocenti fino a prova contraria? Ecco dunque un altro punto fondamentale per chi volesse abbracciare la visione leghista della giustizia: l’idiosincrasia salviniana. Per chi si trova dalla parte “giusta” della barricata vale il principio di non colpevolezza, e se qualcuno dovesse metterlo in discussione, allora via con digiuni dal tono quasi ascetico, astinenza, privazioni e perché non anche il cilicio per ribadire l’innocenza del leader martire. E per chi avesse un animo meno incline alla spiritualità, potrebbe senza dubbio gioire con una versione 2.0 de Le mie prigioni.
Perché in questa Italia parallela e distopica le elezioni in Emilia-Romagna sono ormai diventate un essere mitologico e multiforme. Il povero Bonaccini sembra l’unico sulla scena politica interessato a parlare delle concrete problematiche della sua regione. La candidata leghista Borgonzoni si è persa, forse tra le montagne trentine, appellandosi a una disparità di genere quando viene criticata per la pochezza dei contenuti, soppiantata dalla voracità di Salvini, che infarcisce il discorso politico delle cose più disparate, fedele alle sue inclinazioni gastronomiche. I Cinque Stelle stanno perdendo il loro firmamento, e sembrano lontani dalla frase di dantesca memoria “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. C’è infine il Pd di Zingaretti che aspetta, ogni tanto, un po’ di fosforo dalle sardine, ma che per il resto sinceramente boh. Mi rendo conto che non sia un linguaggio molto tecnico, ma altro non mi viene.
È dunque forte la tentazione di trovare rifugio nella perfetta completezza e immutabilità dell’essere parmenideo e lasciare il nichilistico divenire al suo nulla conclamato.
Tommaso Nutarelli