Per il momento niente fase due. Al termine di una videoconferenza con le parti sociali, il governo ha deciso di estendere il lockdown di tutte le attività produttive fino al 3 maggio. Dunque niente ripresa, se non con qualche eccezione, come le librerie. Dal punto di vista sanitario la situazione continua a migliorare, ma gli effetti positivi non sono così significativi come ci sarebbe aspettati un mese fa, quando tutta Italia è stata messa in quarantena.
Gli scienziati non parlano ancora di un calo netto. La curva dei contagi prosegue la sua lenta discesa verso il basso, i morti calano, ma sono ancora molti, i guariti crescono sempre di più. Tuttavia i numeri non sono ancora così incoraggianti, e i tecnici ribadiscono che non è questo il momento di abbassare la guardia. Le misure di contenimento e distanziamento sociale stanno piano piano dando i loro frutti. Gravissimo eccedere in facili ottimismi. Ma la fioca luce dietro le tenebre inizia a imporre di pensare al rilancio del paese, a come rimettere in moto un motore già svigorito dalla recessione, e ancor più stremato dall’emergenza sanitaria.
Il governo per arginare i contraccolpi economici ha messo in campo un piano di liquidità alle imprese da 400 miliardi, e la possibilità agli imprenditori di accedere a un sistema di prestiti in gran parte garantiti dallo stato. Un piano di aiuto vasto, che cerca di rispondere alla straordinarietà della fase che stiamo vivendo, ma che non ci dice ancora come poterne uscire. Manca insomma una visione a lungo termine per il dopo, nel quale sarà necessario ripartire proprio dalla centralità e dal ruolo di inclusione sociale che solo il lavoro è in grado di garantire.
Proprio questa mancanza di una strategia per il dopo è il principale rimprovero che industriali del nord fanno all’esecutivo. In documento inviato al governo, Confindustria Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna, quattro regioni che da sole mettono insieme il 45% del Pil nazionale, chiedono una roadmap per pianificare la fase 2. Al primo posto, precisano, rimane la salute nei luoghi di lavoro, che deve essere garantita rispettando le indicazioni del Protocollo firmato con i sindacati lo scorso 14 marzo. Ma con un lockdown prolungato, avvertono, il motore economico del paese rischierebbe di fermarsi definitivamente.
Lo scenario che ci si prospetta davanti non è di certo dei migliori, con conseguenze nefaste e massicce, nella portata, per la nostra economia. L’Istat, nella sua nota mensile, parla di uno shock senza precedenti per il nostro sistema produttivo. Il virus ha imposto la serrata a 2,2 milioni di imprese, con un’occupazione di 7,4 milioni di addetti. In altre parole un’impresa su due è stata costretta a chiudere i battenti. Due gli scenari delineati dall’Istat. Nel primo, con una chiusura delle attività per i soli mesi di marzo e aprile, il calo dei consumi sarebbe pari al 4,1%. Nel secondo, con l’ipotesi di un blocco fino a fine giugno, il crollo sarebbe ancora più massiccio, pari al 9,9%. In termini di fatturato, spiega uno studio Censis-Confcooperative, il congelamento ha avuto un impatto di 660 miliardi di euro nell’ambito dei servizi e 91 miliardi nelle costruzioni, mentre per le imprese dell’industria in senso stretto la restrizione ha avuto effetto su 570 miliardi.
E se sul fronte interno numeri e stime ci restituiscono uno scenario non confortante, al livello europeo il virus non ha fatto acuire le divergenze politiche tra i vari stati membri. Alla fine l’Eurogruppo dei ministri delle finanze hanno raggiunto un sofferto accordo. Un piano da oltre 1.000 miliardi di euro, in due manche. La prima da 540 miliardi di prestiti aiuti per l’occupazione, attraverso il piano Sure, la banca Bei per le imprese e il Mes, senza condizionalità, e una seconda da 500 miliardi, per spese sanitarie e stimoli futuri all’economia. Dunque no agli eurobond. Un compromesso che ha messo d’accordo i frugali paesi del Nord Europa, Germania e Olanda in testa, con le richieste di Italia, Francia e Spagna.
Ma al di là delle tecnicalità, il punto centrale è il destino e il futuro dell’Unione europea. Questa crisi ci dirà chi siamo e che Europa vogliamo. Il rischio che le diseguaglianze sociali ed economiche aumentino è molto forte, così come che venga meno anche la solidarietà tra gli stati. Questo è un prezzo che non possiamo permetterci. Deve essere chiaro, ora più che mai, che nessuno può salvarsi da solo. La ricostruzione sarà non solo economica ma anche sociale. Ci dicono che dovremmo convivere a lungo con il virus. Servirà dunque uno sforzo straordinario, sia collettivo che individuale, per riprendere in mano la nostra socialità ed esercitare nuovamente le nostre libertà, consapevoli che forse nulla sarà più come prima.
Tommaso Nutarelli