“Se mio figlio ha fame, gli do da mangiare. Non lo faccio morire di fame per rispettare le regole”. Un discorso chiaro e semplice, sul quale tutti non possiamo non essere d’accordo. Con queste parole Matteo Salvini mostra tutti i punti di forza del suo agire comunicativo: appellarsi al senso comune e al buon senso delle persone. Due registri che, a prima vista, possono sembrare identici, ma che in realtà si muovono su due direttrici, molto vicine tra loro, che il leader leghista mescola, senza mai confonderle.
L’argomentazione salviniana è piana e lineare, rifiuta ogni forma di tecnicismo, ma anzi abbonda di esempi ed espressioni che possano essere facilmente assimilati e compresi dalle persone. Non è la logica delle élite o dei buoni salotti, ma è il linguaggio dell’”uomo della strada”, che molto spesso desidera soluzioni pronte all’uso per i suoi problemi. Questa ingenua immediatezza del numero uno del Carroccio cela, in realtà, una costruzione efficace nel creare consenso e alimentarlo.
In tutto questo non manca un ricorso massiccio ai simboli. Ultimamente la simbologia religiosa è la più gettonata dal ministro dell’Interno, che non perde occasione per esibire santini e rosari. Salvini come i re taumaturghi del medioevo di Bloch. Per gli accoliti di oggi la “salvezza” non passa più per l’imposizione delle mani, ma è veicolata dai selfie. E chi li usa per manifestare il suo dissenso viene allontanato con una certa stizza, reo, attraverso l’inganno, di aver violato uno spazio connotato da una sacralità crescente per i veri seguaci di Salvini. Nel suo incedere tra la folla c’è un qualcosa di messianico, tantoché un leghista doc potrebbe dire di aver visto lo spirito del mondo.
Il machismo e l’ostentazione di una vigorosa produttività sono stati, in parte, messi in naftalina. Per cui le ruspe sono scomparse dall’orizzonte comunicativo di Salvini, ma non viene meno il constante richiamo al lavoro e allo sforzo che quotidianamente il vicepremier, da buon padre di famiglia, mette in campo per garantire un futuro migliore ai suoi 60 milioni di figli. Anche le varie divise hanno ripreso il proprio posto nell’armadio, per essere sostituite dalle varie felpe e magliette incise con il nome delle località o della regione che Salvini visita di volta in volta, trasformando il made in Italy, espressione cosmopolita con la quel indicare i prodotti e lo stile del Belpaese nel mondo, in un identitarismo chiuso e nemico del diverso.
Una freschezza e una prontezza che il suo compagno di ventura, l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, sembra aver perso, e con lui tutto il Movimento Cinque Stelle. La ricerca di un luogo puro e incontaminato, identificato nel web, al riparo, almeno nelle intenzioni dei grillini, da ogni forma di manipolazione e corruzione, sta allontanando i pentastellati sia dal nazional-popolare, ormai terreno di caccia esclusivo di Salvini, sia da ogni forma di competenza e di argomentazione fondata. Il “questo lo dice lei” riassume la consistenza dell’intelligencija a Cinque Stelle.
La piattaforma Rousseau ha trasformato l’impianto politico del Movimento in qualcosa di asettico e distaccato dal reale, lontano dalla vis argomentativa di Salvini. Le consultazioni richiamano pochi iscritti, e le decisioni più importanti vengono comunque prese nelle torri eburnee della Casaleggio. La Lega, secondo il copione del vecchio partito, non ha rinunciato ai gazebo per diffondere il verbo del suo capitano.
Tommaso Nutarelli