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Malorgio, un ”manifesto” europeo dei Trasporti, per superare le divisioni nazionali e contrastare oligopoli e populismi

Nunzia Penelope
Aprile26/ 2022

Tema: riunire i sindacati europei dei trasporti in un unico ”manifesto”, per dare forza all’azione di un settore che come nessun altro e’ transnazionale, ma anche – e soprattutto – per dare stimolo alla politica, o meglio alle famiglie politiche europee progressiste, che da troppo tempo hanno messo nell’angolo i temi del lavoro, aprendo spazi agli attacchi di destre e populismi. Questo, in sintesi, l’obiettivo della tre giorni (27-29 aprile) di discussione internazionale di Napoli, promossa dalla Filt Cgil (titolo: ”Think thank progressista. Andiamo a sinistra”) con la partecipazione di ospiti politici nazionali, come Enrico Letta, Elly Schlein, Paola De Michelis, e internazionali, come Frank Moreels presidente di Etf  e del sindacato belga, il docente e ricercatore britannico Nicola Countouris, e la segretaria generale  del sindacato europeo dei trasporti (Etf) Livia Spera. Il Diario del Lavoro ne ha parlato con Stefano Malorgio, segretario generale della Filt Cgil.

Malorgio, ci spieghi meglio gli obiettivi di questo appuntamento, abbastanza inusuale. Qual è lo scopo del think thank progressista di Napoli?

In realtà è la seconda riunione del genere, la prima l’abbiamo organizzata a settembre, ad Anversa. Premetto che il sindacato dei trasporti è per forza di cose internazionale: sottoscriviamo accordi di valenza mondiale, come nel settore  dei marittimi. Rispetto a settembre stavolta abbiamo avuto un numero ancora superiore di paesi aderenti. E questo appuntamento è soprattutto finalizzato a fare il punto in vista del congresso dell’Etf che si terrà a Budapest in maggio, dove cercheremo di realizzare un manifesto comune del settore trasporti europeo, per superare le divisioni nazionali.

Di quali divisioni parliamo, esattamente?

Be’, diciamo che italiani, tedeschi, francesi, o chiunque altro, prima di essere sindacalisti, sono italiani, tedeschi, francesi, eccetera. Noi vogliamo provare a costruire punti di convergenza che superino le divisioni degli interessi nazionali. E il primo punto di divisione è nei modelli sindacali dei vari paesi europei: quello del nord, fortemente radicato nel modello della socialdemocrazia nord europea,  quello tedesco, forte di un grande riconoscimento anche istituzionale, quello del sud, cioè di Francia, Spagna, Italia, basato sulla  libera adesione, e quello dell’est Europa, ancora differente per storia.

Sono modelli sindacali, e alcuni in particolare, di antica tradizione: come pensate di unificarli, o superarli?

Costruendo una cultura sindacale europea. Intanto rispondendo ad alcune domande. Quale relazione scegliamo di avere con i lavoratori dei singoli Stati? Come esercitiamo un ruolo attivo nel rapporto con le grandi multinazionali? Che rapporto avere con la politica? La discussione di Napoli parte proprio da qui: dal rapporto tra rappresentanza sociale e politica del lavoro. In sintesi, noi pensiamo che una sinistra  che si basi solo sui diritti civili non basta, serve che la centralità torni ad essere l’equità sociale ed il lavoro . Questo è un problema comune a molti Paesi. Vogliamo provare a capire se a livello delle famiglie progressiste europee si possa costruire un percorso assieme.

Da dove nasce l’esigenza di darsi un progetto comune a livello europeo?

Da un lato i fenomeni con cui dobbiamo confrontarci sono troppo grossi, e penso alle multinazionali, alle concentrazioni oligopolistiche nel settore dei  trasporti e della logistica: occorre tornare a regolamentare, non è possibile che siano i soggetti economici a dettare le regole. L’altro aspetto è che le idee populiste stanno prendendo di mira e attaccando il sindacato in tutti i paesi: l’assalto alla Cgil di ottobre scorso non era un caso isolato e nazionale. Oggi dunque ci chiediamo quali posizioni il sindacato debba avere nei confronti dei movimenti di destra. Sarà argomento anche del congresso dell’Eft, che non a caso si terrà a Budapest, nel cuore di una ‘democratura’ dell’est, dove gli attacchi alla libertà sindacale, e non solo,  sono costanti .

Ma “sindacato” e ”destra” non sembrano una contraddizione in termini?

Dobbiamo fare i conti col fatto che molti lavoratori non sono, o non sono più, politicamente a sinistra, ma guardano altrove. E’ accaduto sui vaccini, e ora accade sulla guerra: si creano dei cortocircuiti pericolosi. Il fatto è che da tempo si sono persi, reciprocamente, i punti di riferimento politici e culturali comuni. Oggi sindacato e sinistra hanno problemi molto simili e dovrebbero parlarsi di più per risolverli. Invece constatiamo una incomunicabilità dannosa.

Incomunicabilità che va a favore della destra?

La cosa che mi colpisce, nei dialoghi e nel confronto diretto che abbiamo frequentemente con i lavoratori,  è che la destra emerge come l’unica ad avere un progetto di cambiamento, mentre la sinistra viene percepita come in costante difesa dell’esistente.  Nei parlamenti, in quello italiano come un po’ ovunque in Europa, il lavoro è stato per decenni al centro della discussione politica. Ora non più. C’è stata una svalorizzazione sistematica dagli anni 90 in poi. Ma adesso è tornata la necessità di dare centralità al lavoro. Non più novecentesco e declinato in chiave europea, tanto più in un settore come il nostro, dove la dimensione nazionale non ha senso, perché i cambiamenti da governare, come accennavo prima, sono colossali.

Spieghi meglio.

Nei trasporti si ha una visione chiara di cosa significa la concentrazione oligopolistica dei poteri. Chi controlla la logistica, per esempio, ha un potere gigantesco,  in alcuni casi maggiore di chi controlla la produzione. Così anche nel settore aereo e marittimo, dove tutto è in mano a pochi soggetti. Altri temi sono la digitalizzazione del commercio  e, naturalmente, la transizione green, altro fenomeno che se non governato adeguatamente avrà un impatto molto forte sul lavoro. Sono tre capitoli cruciali dei nostri tempi, per i quali la risposta nazionale non basta, serve l’Europa intera. E non basta nemmeno la risposta sindacale: occorre anche quella politica, perché è la politica che fa le leggi per regolamentare tutto questo.

E poi c’è la guerra in Ucraina, nel cuore d’Europa. Che immagino avrà un impatto forte anche sul sistema della logistica e dei  trasporti, e sull’insieme del quadro che  mi sta descrivendo.

Certo, la guerra cambia il quadro. Abbiamo parlato fino a ieri di globalizzazione spinta, ora vediamo una regionalizzazione economica, non positiva, pericolosa, che causerà anche lo stop di molti progetti. A partire dalla Via della Seta. L’asse verso est tenderà a indebolirsi e questo produrrà effetti sul commercio, ci sarà uno spostamento verso l’area del mediterraneo dove l’Italia potrebbe giocare un certo ruolo, ma non sappiamo come ci si arriverà.  Serve un lavoro di analisi che al momento manca.

La globalizzazione è stata molto contestata da sinistra. Ora la si rimpiange?

Non è un bene che finisca la globalizzazione,  personalmente non brindo al ritorno delle frontiere chiuse. L’occidente ha rinunciato a governarla, e questo è stato un male, ma la globalizzazione in sé era un allargamento dei confini, che oggi invece si ripropongono e si restringono. E questa cosa, i suoi effetti, nei trasporti la constatiamo prima che altrove.

Cè una grande trasformazione in corso, dunque, e si pone il problema di che risposte saprà dare l’Europa: anche a partire dalla crisi economica che arriva, la terza in un decennio.

C’è una cultura populista  che dentro queste difficoltà avrà delle risposte: sbagliate, ma le avrà. Prendiamo l’immigrazione: ora vediamo la solidarietà verso i profughi ucraini, per i quali tra l’altro anche noi, come sindacati, stiamo facendo tantissimo. Adesso ci applaudono ma verrà il momento in cui qualcuno dirà che chiudersi, estraniarsi dai problemi, respingere chi chiede asilo, è l’unica soluzione. E la sinistra? Cosa dice a queste persone? La partita si gioca in una Europa che durante la pandemia  ha saputo rispondere al di sopra di ogni aspettativa, ha dimostrato che le democrazie sono in grado di dare risposte a crisi gigantesche come quella determinata dal Covid senza rinunciare alla propria natura istituzionale. Ma ora? Sarà in grado di rispondere adeguatamente ai nuovi bisogni che la guerra e la crisi porteranno alle popolazioni?

Per la verità è ancora tutto da capire.

Ma se si mettono assieme queste difficoltà, oggettive, col fenomeno dei populismi, il quadro non è tranquillizzante. I trasporti, come ho già detto, sono un osservatorio che consente di vedere in anticipo queste dinamiche. Per questo, come categoria,  proviamo a dare uno stimolo a questi temi.

Vi assumete un ruolo molto politico con queste iniziative. Ma sul piano più strettamente sindacale, come vi state muovendo?

Noi, come sindacati dei trasporti italiani, e ci metto anche Cisl e Uil naturalmente, con cui condividiamo vertenze ed analisi, siamo una rappresentanza che ha saputo trovare risposte positive, attraverso la contrattazione, a temi che nessuno prima di noi aveva sciolto. Vedi l’accordo con Amazon, che ora i sindacati americani vengono a ”studiare” da noi, o l’intesa sui rider con Just Eat, o con le compagnie low cost. Stiamo, insomma, dentro i principali processi dei nostri tempi e ci stiamo con successo. Ma oggi anche portare risultati contrattuali non basta: bisogna guardare più lontano e farlo stando insieme, perché se il sindacato europeo resta espressione dei diversi interessi nazionali non se ne esce.

Dunque che risposte vi aspettate dalla politica?

Non so. Ma so che le persone, oggi, hanno bisogno di un racconto del mondo, di una visione: non bastano più gli accordi, per quanto ottimi e di successo, non basta la risposta sindacale: occorre anche quella politica, perché sta alla la politica fare i provvedimenti necessari a governare certe fasi, certi processi. Oggi abbiamo la fortuna di avere nei trasporti un gruppo dirigente del sindacato europeo  di valore, che  agisce con determinazione.  Siamo in una scia positiva, c’è una congiunzione astrale giusta, e dunque proviamo a dire alla politica: ”si può fare”.

Nunzia Penelope

Nunzia Penelope

Giornalista