Il conflitto in Ucraina ha già iniziato a far sentire i suoi effetti sull’economia del paese. In questa intervista al Diario del lavoro Emilio Miceli, segretario confederale della Cgil, spiega in che modo il nostro sistema industriale e la politica energetica dovranno guardare oltre la guerra e il ruolo che dovrà avere l’Europa nella transizione energetica.
Miceli, il conflitto quanto sta pesando sul nostro sistema produttivo?
La crisi energetica che stiamo vivendo investe, trasversalmente, tutto il nostro tessuto industriale, dalle aziende del settore chimico, petrolchimico a quelle dell’automotive, all’acciaio, ai grandi distretti industriali energivori. Taranto, Siracusa, Marghera, Brindisi, sono solo alcuni dei grandi poli della nostra industria che stanno accusando gli effetti del conflitto. Il compito difficile sarà quello di centrare gli obiettivi del programma “Fit for 55”, riducendo e abbattendo le emissioni di Co2, e salvaguardare, al contempo, la produttività e l’esistenza stessa delle nostre imprese. Siamo un paese che può contare sull’apporto dell’energia idroelettrica al Nord, del vento e del sole nelle Isole e al Sud, e disponiamo di tecnologie intermedie per gestire la fase di transizione. Ovviamente, la guerra e l’aumento fortissimo del prezzo del gas, per non parlare dell’approvvigionamento. tutto questo richiede capacità di gestione e di visione della politica industriale e della collocazione del nostro paese nella attuale divisione internazionale del lavoro altrimenti rischiamo di correre il rischio di un processo disastroso di dismissioni e di delocalizzazioni. Questo è il compito della classe dirigente del paese a tutti i livelli, istituzionale, politico, economico e sociale.
Abbiamo le energie per compiere queste trasformazioni?
Conosciamo tutti i problemi cronici di questo paese. La mancanza di infrastrutture, materiali e digitali; una macchina amministrativa lenta e vetusta; la mancanza di grandi imprese. Ma non possiamo dimenticare il fatto che siamo riusciti a creare un sistema industriale importante. Siamo la seconda manifattura europea e facciamo parte dei sette paesi industrialmente più avanzati. Soprattutto ci siamo dimostrati capaci nel trasformare il nostro modello industriale quando era necessario. Tra la Lombardia e l’Emilia Romagna abbiamo dato vita a una delle aree più ricche d’Europa. Quindi abbiamo tutte le carte in regola per vincere anche questa sfida. Quello che manca è il coraggio politico, di fronte ai rischi che corriamo, di sapere fare le scelte necessarie e mettere in campo gli investimenti pubblici e privati necessari a gestire la transizione, a partire dalle grandi partecipate dell’energia che dovrebbero rivedere i loro piani industriali per lo sviluppo del mercato domestico. Ciascuno deve fare la sua parte.
Quale sarà il ruolo del sud Italia?
Nel Mezzogiorno, a partire dagli anni ’60, sono state trapiantate molte realtà industriali. In larga parte industria pesante e ad alto livello di impatto ambientale. Un processo, in molti casi, fatto dall’alto, ma che ha comunque portato alla nascita di diverse eccellenze. Oggi, nella logica della transizione energetica il Sud può diventare un hub molto importante per il paese, grazie all’energia eolica e solare, senza dimenticare che, in prospettiva, sarà l’idrogeno a garantire quella continuità energetica indispensabile per il funzionamento dell’industria, che le rinnovabili non possono garantire. È necessario dare nuovi obiettivi industriali al Sud insieme alla sua “ naturale” centralità nel nuovo sistema energetico e nella conseguente sovranità energetica del paese.
Come valuta le iniziative del governo per uscire dalla dipendenza energetica con la Russia?
Il governo ha iniziato un processo alternativo di ricerca per l’approvvigionamento energetico che sta guardando all’Africa, a paesi come l’Egitto, l’Algeria e il Congo insieme ad un aumento, timido per la verità, della produzione nazionale.È una strategia inevitabile per sottrarci allo stretto legame che abbiamo instaurato con la Russia su questo versante, legame a tratti inquietante, ma che non è sufficiente. È importante che ci sia anche una forte spinta verso la semplificazione per un uso sempre più massiccio delle rinnovabili. In questo senso le semplificazioni previste nell’ultimo decreto legge vanno nella direzione giusta. Cambiare il nostro mix energetico e, conseguentemente, il nostro sistema industriale, è la sfida più grande che ci attende. Un cambiamento che dobbiamo realizzare mentre siamo in marcia perchè non possiamo fermarci, con il rischio di vedere la nostra industria estromessa dai mercati internazionali.
Sul nuovo pacchetto di sanzioni c’è stata la prima vera spaccatura del fronte europeo. Come legge questa notizia?
In Europa la situazione energetica dei vari paesi è molto eterogenea. Noi, più di altri, scontiamo la dipendenza dal gas russo, e questo lo stiamo sperimentando sulla pelle di lavoratori, famiglie e imprese. È una situazione che deve farci preoccupare perché, al momento, non siamo nelle condizioni per essere autonomi sul piano energetico. È chiaro che non tutti gli stati si relazionano alle sanzioni allo stesso modo, e non tutti gli Stati ne risentono in egual misura. Ma è importate dare un segnale politico unitario alla Russia, e sarebbe un grave errore dare l’immagine di un’Europa frammentata.
Che ruolo deve giocare l’Europa nella transizione energetica?
Non possiamo pensare che da soli, intendo noi europei, possiamo contribuire al benessere del pianeta di fronte alla crisi climatica. L’Europa, e tutto l’Occidente, ha la responsabilità di supportare anche gli altri paesi in questo processo. Abbiamo tecnologie e le conoscenze scientifiche per poter portare a compimento la transizione energetica ed aiutare quel processo di riconversione del sistema energetico di cui il pianeta ha bisogno.