Il negoziato sulla produttività è sostanzialmente fallito. Formalmente ancora si tratta, il presidente dell’Abi Mussari afferma di essere ottimista, il ministro Passera dice che non tutto è perduto, e assicura che il governo tenterà di rimettere in moto il meccanismo per arrivare a un accordo. L’impressione però è che si tratti di tattica per coprire un fallimento. Peccato, perché mercoledì sera l’accordo sembrava a portata di mano. Confindustria stava trattando con Cgil, Cisl e Uil e il dialogo scorreva veloce. Praticamente era stato trovato un accordo su tutti i punti, ma quando la mattina dopo si è cercato di allargare l’intesa tra Confindustria e sindacati al resto dell’imprenditoria, qualcosa non ha funzionato. Le altre parti datoriali hanno alzato l’asticella, l’accordo è svanito. Colpa anche e soprattutto del governo, perché Passera aveva appena riunito tutti gli imprenditori (ma non i sindacati) dicendo loro che l’intesa così come stava per essere messa a punto non era sufficiente. Se, ha detto Passera, volete le risorse che abbiamo messo a disposizione, e non è poco, 1,6 miliardi di euro, dovete dare qualcosa di più. In questo ha incontrato l’opinione almeno di alcune delle organizzazioni imprenditoriali che del resto non si riconoscevano nel documento messo a punto la sera prima.
A questo punto il negoziato è terminato. Anche perché è emerso, sia pure abbastanza indistintamente, cosa il governo vorrebbe per avallare l’accordo. Lo ha ripetuto nelle ultime ore il ministro Fornero affermando che devono cadere le indicizzazioni presenti nella dinamica salariale. In pratica, deve cadere il meccanismo che, facendo riferimento all’Ipca, consente di far crescere i salari al tasso di crescita dell’inflazione o poco meno dal momento che non tiene conto della crescita dei prezzi dei beni energetici.
Su questo il presidente dell’Abi è stato molto chiaro. Il nostro ultimo contratto, ha detto, ha legato tutti gli aumenti retributivi a una crescita della produttività, e lo stesso va fatto per tutti gli altri contratti. Il sindacato però è decisamente contrario a un’operazione del genere perché ciò significherebbe una diminuzione dei salari reali. Se una parte degli aumenti salariali concessi con i contratti nazionali viene spostata sui contratti aziendali e legata all’avverarsi di talune circostanze, è evidente che queste circostanze possono anche non avverarsi e quindi gli aumenti possono non essere concessi. Quindi non è più sicuro che la dinamica dei salari segua, più o meno, quella dell’inflazione.
Quello che stupisce è che il governo voglia davvero mettere in piedi un sistema che porti a una riduzione dei salari. Il problema principale della nostra economia è la debolezza della domanda interna e l’unico modo per cercare di riprendere lo sviluppo consiste proprio nel dare ossigeno ai consumi interni. Evidentemente l’obiettivo del governo non è lo sviluppo, altrimenti ciò non sarebbe accaduto. Del resto, la famosa lettera della Bce dell’anno passato chiedeva esplicitamente il blocco della dinamica salariale. Resta da capire se questo corrisponde agli interessi del nostro paese o solo a quelli della Bce che ha un compito specifico e solo quello, salvare l’euro.
Resta da capire come sia potuto accadere tutto ciò, di chi siano le responsabilità. Le richieste del governo erano inaccettabili per i sindacati, e questo era stato chiaro dal primo momento. Ma Confindustria e i tre sindacati avevano messo a punto un documento, che Il diario del lavoro è in grado di pubblicare, che risolveva una serie di problemi, ponendosi concretamente l’obiettivo di una maggiore produttività del sistema. il documento poteva essere migliorato, implementato, ma non è stato possibile farlo. Tra l’altro si è creata una pericolosa frattura tra Confindustria e il resto dell’imprenditoria che non è sicuramente un fatto positivo in un momento in cui servirebbe al contrario il massimo della coesione per superare con le poche risorse che abbiamo le difficoltà nelle quali ci troviamo.
Esistono ancora delle possibilità di riprendere il negoziato? Così come era stato concepito fin dall’inizio, è difficile che si ricominci daccapo e si giunga a un risultato utile. Di certo c’è la volontà di Confindustria e Cgil, Cisl e Uil di arrivare a un accordo che quanto meno applichi l’intesa del 28 giugno 2011. E già questo sarebbe un risultato notevole.
Resta poi da capire dove saranno dirottate quelle risorse, 1.6 miliardi di euro, che il governo aveva detto sarebbero servite per defiscalizzare e de contribuire gli aumenti salariali concessi al livello aziendale. C’è chi spera di vederli usare per abbassare il cuneo fiscale e contributivo tra salario reale e salario nominale, ma le speranze credo siano pochine. C’è chi vuole usarle per aiutare gli istituti di credito, in grosse difficoltà. il timore è che per il lavoro ci siano poche ciance di poterne approfittare. A tutto svantaggio di chi continua a portare sule spalle tutto il peso delle diverse riforme strutturali attuate dal governo Monti.
Massimo Mascini