Mai come in questi giorni, monopolizzati dal coronavirus, il Servizio Sanitario Nazionale non solo è in prima linea per arginare il contagio, ma anche al centro delle cronache. Bistrattato, criticato per la sua qualità, i lunghi tempi di attesa e la tortuosità della sua burocrazia, ma unico vero argine contro la diffusione del virus. E se in molti oggi si ergono come difensori della sanità pubblica e delle sue eccellenze, l’onestà ci impone di sottolineare come, negli anni passati, al SSN siano stati sottratte sistematicamente delle risorse.
Tra il 2009 e il 2019, il finanziamento al Fondo Sanitario Nazionale ha visto una riduzione di 37 miliardi, con una significativa incidenza durante gli anni della crisi. Il prossimo triennio dovrebbe registrare una piccola inversione di tendenza, con il rapporto tra spesa sanitaria e Pil che si attesterà al 6,6%, il che vuol dire che si passerà dal 114 miliardi di spesa del 2019, ai 117 del 2021. E le cose non sono andate meglio anche sul fronte del personale medico-sanitario. Tra il 2008 e il 2017 la contrazione del personale della sanità pubblica è stata del 6,2% (46.500 addetti in meno), dei medici del 5% (-5.876 unità), e del personale non dirigente, specie quello infermieristico del 4,6% (-26.073 unità). A questo va aggiunto che nel triennio 2019-2021 potrebbero essere 23mila i medici che potrebbero lasciare il servizio, per effetto del raggiungimento dei limiti di età e di Quota 100, con una riduzione complessiva dell’organico del 24% (-103.000 unità).
Sono notizie di questi giorni che le aziende ospedaliere delle zone rosse, o vicino ad esse, abbiano dovuto richiamare personale in pensione, o come il nosocomio di Cremona che attraverso un bando cerca con un’urgenza personale infermieristico, con una retribuzione di 30 euro l’ora, e potranno concordare con l’azienda ospedaliera la durata dell’incarico e l’impegno orario “a seconda della disponibilità manifestata e del perdurare della necessità assistenziale”. E se queste storie sono strettamente legate al contingente, altre hanno sicuramente una connotazione più strutturale e duratura. La presenza diffusa di una condizione lavorativa precaria, come quella delle ricercatrici che allo Spallanzani e al Sacco hanno isolato il virus. Così come diamo per ovvio il fatto che l’esecuzione del tampone sia un qualcosa di gratuito. Un fatto che non dipende dal buon cuore di medici e infermieri, ma dalle tasse che servono per sostenere la sanità pubblica.
Quello delle tasse è certamente una questione mal digerita da tutti. Nessuno, se potesse, vorrebbe pagarle. Ma la cosa ancora più grave è l’atteggiamento di chi, pur ricercando ogni strada per svincolarsi dalle imposte, non esita un attimo a rivolgersi a tutti quei servizi finanziati dalla collettività e si lamenta anche di un loro mal funzionamento. Ancor più paradossale è quella narrazione politica che promette di abbassare le tasse, di mandare tutti in pensione prima. che tanto poi i conti li paga pantalone. E se è sicuramente più giusta una strategia volta a contenere la tassazione sul lavoro, non bisogna tuttavia dimenticarci che le nostre tasse servono per finanziare, anche, la sanità e la ricerca. E a chi guarda agli Stati Uniti come a un paradiso fiscale in terra, andrebbe ricordato che oltre ai timori di una possibile diffusione del Covid-19, negli Usa c’è chi teme di più l’organizzazione privata della sanità, e l’impossibilità, per le fasce meno ricche della popolazione, di potersi permettere perfino un tampone.
È fuori dubbio che il Sistema Sanitario Nazionale, così come era stato concepito quarant’anni fa, non può più resistere a lungo: l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dell’aspettativa di vita e l’emergere, in modo sempre più pressante, dei problemi legati alla non autosufficienza, per la quale manca una legge nazionale, richiedano una sua ricalibrazione. C’è poi la difficolta legata alla regionalizzazione del servizio sanitario pubblico, per cui non sempre si riesce a uniformare la risposta ai bisogni delle persone, creando forti squilibri tra regione e regione.
In questi anni gli esperti hanno parlato di un progressivo retrenchment, una restrizione del welfare state pubblico. Una riduzione dovuta anche a tagli continui alla spesa. E dinnanzi a questa conclamata difficoltà del welfare pubblico di svolgere il proprio ruolo, il secondo welfare – espressione piuttosto vaga per indicare un universo ampio e articolato, nel quale si può includere anche il welfare contrattuale – ha conquistato progressivamente terreno.
Il punto non è quello di criticare e denigrare la sanità privata o la previdenza complementare: sarebbe un discorso ingiusto e insensato. Così come sarebbe anacronistico rifiutare l’idea di un welfare sempre più misto, o pensare che il pubblico sia un’isola felice, privo di qualunque problema. Ma in questi anni abbiamo assistito a una crescita continua della spesa privata per la sanità, e molte persone hanno rinunciato alle cure o hanno dovuto posticiparle. Il welfare contrattuale è un istituto in continua espansione, ma che non è esente da problematiche di fondo: crea disparità tra insiders e outsiders del mercato del lavoro, crea disparità tra lavoratori e lavoratori, e la decontribuzione riconosciuta alle imprese per attuarlo è tutta a carico della fiscalità generale. Il ruolo integrativo delle sanità privata è, a volte, duplicativo di quella pubblica, e anche i bisogni delle persone non autosufficienti difficilmente trovano accoglimento nel privato.
Passata l’emergenza, dovremmo dunque interrogarci sul perché non possiamo fare a meno di una sanità pubblica. Andrebbe ripresa e ribadita l’utopia che è stata alla base della nascita del Sistema Sanitario Nazionale: il diritto alla salute per le persone, non in quanto appartenenti a una specifica classe sociale o perché lavoratori di un determinato settore, ma in quanto cittadini. Così come dovremmo ripensare alle dinamiche che hanno portato alla nascita del welfare state, per come oggi lo conosciamo, ossia l’aver emancipato il sostegno a chi ne ha bisogno da azione legata alla benevolenza del privato e all’iniziativa delle istituzioni religiose, a diritto riconosciuto dal cittadino.
L’accesso gratuito e universale alla sanità è proprio questo: liberare la persona da qualsiasi legame economico o di benevolenza nel momento di massimo bisogno. Ecco perché dovremmo vedere il Sistema Sanitario Nazionale come un bene comune, che va si ripensato, ma anche alimentato e curato.
Tommaso Nutarelli