La politica non segue, anzi non ha mai seguito la regola etica della Olimpiadi, quella sintetizzata da Pierre de Coubertin circa un secolo fa, ossia che l’importante non è vincere ma partecipare. Per la politica, per tutti i partiti, è vero esattamente il contrario, l’importante è appunto vincere, anzi stravincere. E poi dirigere, anzi comandare possibilmente riducendo gli sconfitti, altrimenti detti opposizione, in una condizione di non nuocere. Tranne qualcuno, per cui invece bisogna comunque esserci, anche se sanno benissimo che prenderanno pochissimi voti ma quanti bastano per condizionare maggioranze e opposizione. Gli esempi non mancano, due per tutti sono Renzi e Calenda. I quali non corrono per la medaglia d’oro de manco per quella di bronzo, ma gli basta prendere un pugno di parlamentari per dichiararsi soddisfatti e contenti. Contenti loro…
Invece quelli che giocano sul serio, per cui l’obiettivo è la medaglia d’oro, sanno benissimo che arrivare secondi non serve a niente (lo diceva il padre dei Kennedy) e dunque scendono i campo per vincere.
Ma vincere in politica non dovrebbe significare stravincere, come invece intende fare Giorgia Meloni con la sua legge sul premierato. Che però – e per fortuna – sembra destinata a morire in uno dei tanti cassetti parlamentari dai quali non uscirà più. Vedremo e speriamo.
Però la vita e dunque nemmeno la politica finiscono con una riforma o due, visto che oltre a quella del premierato resta in ballo l’autonomia differenziata contro la quale sono già state raccolte centinaia di migliaia di firme che consentiranno di arrivare a un referendum abrogativo che dovrebbe avere buone possibilità di ottenere la maggioranza dei votanti. Inoltre non mancheranno in autunno e nei mesi seguenti le occasioni per una battaglia politica, parlamentare e magari anche sociale che sia in grado di costringere il governo a difendersi un giorno sì e l’altro pure, mettendo in campo tutte le sue risorse politiche, umane e tecniche. Che però non sono tante, qui non siamo alle Olimpiadi, dunque non ci sono atleti formati per la corsa, altri per il salto in lungo, e altri ancora per la pallavolo o il basket. Qui tutti competono in ogni gara senza però essersi allenati per vincerla, diciamo che siamo di fronte a una partita di calcio più che a una di tennis o a un salto triplo. Non che dall’altra parte siano invece tutti campioni, però spesso nello sport – e anche in politica – è più facile attaccare che difendersi, “la miglior difesa è l’attacco” disse infatti l’allora Capo dello Stato Sandro Pertini allo stadio Bernabeu quando l’Italia vinse i Mondiali del 1982.
E’ ovvio tuttavia che attaccare ognuno per conto suo può mostrare le capacità e i virtuosismi di qualcuno, ma non risolve il problema. Che si chiama gioco di squadra, in cui ognuno gioca anche per gli altri, passa la palla al momento giusto, non si infila nella ragnatela degli avversari, non tenta dribbling improbabili, non tira da distanze siderali ben sapendo che quel pallone non finirà mai in rete, non cerca la giocata spettacolare a meno che non si chiami Maradona o Totti (ma giocatori come loro oggi purtroppo non se ne vedono).. insomma la politica non è uno sport individuale, bensì collettivo. E allora sarebbe il caso che l’opposizione si metta in testa che nessuno dei suoi leader può pretendere di essere il deus ex machina (visto che non ne ha nemmeno le caratteristiche, a cominciare da Matteo Renzi o Carlo Calenda o anche Giuseppe Conte, forse Elly Schlien sì ma non è detto), ma che deve fare uno sforzo di umiltà (parola sconosciuta ormai nel mondo politico) e mettersi al servizio della squadra. Sempre che questa benedetta squadra si riesca a formare, con i giocatori più adatti e i ruoli ben definiti. Altrimenti, meglio non scendere neanche in campo, cioè non partecipare affatto e lasciare che questa pessima destra resti al potere vita natural durante.
Riccardo Barenghi