Nel giro di poche settimane la Cisl ha dato vita a due fondazioni, una intestata a Pierre Carniti, l’altra a Franco Marini. Due grandi sindacalisti, due campioni, portatori di culture leggermente diverse, che si sono combattuti a lungo, per arrivare infine a una salda, duratura e proficua alleanza. La prima fondazione, quella intitolata a Carniti, sarà guidata da Roberto Benaglia, che è stato segretario generale dei metalmeccanici della Cisl. La seconda sarà condotta da Luigi Sbarra, già segretario generale della confederazione.
Carniti e Marini erano cresciuti culturalmente alla scuola della Cisl, che ha tuttora a Fiesole, sulle colline sopra Firenze, un centro di formazione di grande levatura. Parteciparono al corso lungo, biennale, assieme ad altri giovani cislini destinati a incarichi di grande prestigio nella confederazione. La Cisl in quegli anni, in particolare in quelli successivi alla loro partecipazione alla scuola di Fiesole, era divisa in due parti, che si combattevano aspramente. Una guardava avanti, al futuro, voleva sperimentare nuove strade, l’altra non amava le fughe in avanti, preferiva i piccoli passi, non le erano congeniali i salti.
Pierre Carniti militava nella prima e non ebbe mai paura del nuovo, dell’inconnue. Crebbe culturalmente nei primi anni Sessanta, quando era segretario generale della Fim di Milano. Ebbe due fortunate intuizioni. La prima fu quella di rappresentare i più poveri, quelli che avevano meno diritti, ma grandi ambizioni. L’Italia negli anni della grande trasformazione industriale aveva portato dal profondo Sud alle fabbriche del Nord centinaia di migliaia di giovani lavoratori, i “terroni” che, appunto, avevano meno diritti, meno lavoro, meno garanzie. Gli “operai massa”, come li chiamarono. La Cgil guardava con maggiore interesse a quella che veniva chiamata l’aristocrazia operaia, i più professionalizzati, gli specializzati. Carniti si rivolse agli ultimi, direbbe oggi Papa Francesco, li cercò, li iscrisse, con loro divenne più forte.
L’altra intuizione fu quella di cercare l’amicizia e la collaborazione di un buon numero di giovani intellettuali. Economisti, sociologi, giuslavoristi tra i migliori, che per tutta la vita gli fornirono le basi delle sue teorie, delle sue azioni. Forte di questi due assist Carniti si gettò nella mischia sindacale. Ed ebbe tante vittorie. Quella nella battaglia degli elettromeccanici che si batterono per sancire il diritto alla contrattazione aziendale. Quella per l’unità sindacale, avvicinando gli altri sindacati dei metalmeccanici, la Fiom e la Uilm. Quella per l’autonomia del sindacato dalla politica, lottando per sancire l’incompatibilità tra incarichi politici e sindacali, che allora erano una regola.
Con Bruno Trentin e Giorgio Benvenuto, segretari generali della Fiom e della Uilm, Carniti, diventato intanto segretario generale della Fim nazionale, cavalcò da leader la ribellione dell’autunno caldo nel 1969, quando si gettarono alle ortiche pratiche e battaglie ormai superate e si posero le basi del futuro sindacato. Gli anni successivi furono particolarmente vivaci per il sindacato che cercava una strategia vincente. Carniti elaborò allora la sua teoria sul ruolo politico del sindacato. Non certo per entrare nelle battaglie di partito, ma per sancire il ruolo del sindacato nella gestione del paese.
Quando divenne segretario generale della Cisl si incontrò con Franco Marini e fu intesa. La Cisl era ancora divisa in due parti, che per comodità venivano identificate come i carnitiani e i mariniani. Loro decisero di marciare assieme, stabilirono anche una sorta di staffetta, per la quale Carniti sarebbe stato il numero uno, ma avrebbe poi lasciato la confederazione a Marini. Da quel momento le divisioni sparirono, anche quando le idee forse non collimavano.
E assieme combatterono la guerra della scala mobile, la più importante e lunga vertenza sindacale, che portò la Cisl a grandi vittorie, la più importante con il referendum del 1985 che vide la sconfitta del Pci e della componente comunista Cgil, costretta a schierarsi con il partito di riferimento. Subito dopo, a sorpresa, Carniti, che poteva restare al vertice della confederazione ancora per due anni, lasciò la Cisl. Gli subentrò Marini che in quei difficili sei anni non gli aveva mai fatto mancare il suo appoggio, anche quando la condivisione non era totale.
Raffaele Morese, che ha scritto un bel libro, “Quei cinque di via Po 21”, nel quale scrive la storia dei primi cinque segretari generali della Cisl, avanza una sua spiegazione dell’addio di Carniti. Non era persona, spiega, adattabile a vivere della rendita di posizione che la vittoria gli offriva. Soprattutto, si rendeva conto che la ricostruzione dell’unità sindacale, ormai in frantumi, sarebbe stata azione di lungo periodo, che lui non avrebbe potuto vivere fino in fondo.
Lasciò la mano a Marini che aveva la stoffa del grande tessitore e un’attenzione, un’autentica passione per la politica, che lo avrebbe certamente aiutato in quella particolare fase. E così ricostruì un rapporto forte con le altre confederazioni, stabilizzando il ruolo politico del sindacato. Il grande accordo del 1993, che sancì le nuove regole della contrattazione e della rappresentanza sulla base della concertazione, non lo vide alla guida della Cisl, perché aveva già lasciato il sindacato, ma certamente fu quello il culmine della politica che lui aveva costruito in quegli anni.
Anche Marini lasciò la confederazione prima della fine del suo mandato. Nel 1991 morì Carlo Donat Cattin, già sindacalista della Cisl, che aveva avuto un lungo protagonismo nella Dc fondando una sua corrente, Forze Nuove. Tutti vollero Marini alla guida di questa corrente e lui accettò. E fu un grande uomo politico, che attraversò da protagonista tutte le tappe dell’eredità della Dc: i Popolari, la Margherita, infine il Pd. Fu vicino a essere eletto Presidente della Repubblica. Vale il commento con il quale Morese chiude il ricordo degli anni di Marini, “tanto di cappello”.
Massimo Mascini