Fra i paradossi più evidenti della campagna elettorale in vista delle elezioni politiche del 25 settembre uno di certo non incoraggia certo la fiducia per il dopo: molti gli slogan (senza troppe spiegazioni) sui temi sociali, ma nessuna attenzione alle proposte sindacali e di conseguenza ad un confronto di merito con i rappresentanti dei lavoratori. Gli slogan si sono rivelati per quello che è purtroppo un diffuso costume politico: comportarsi in modo autoreferenziale ed auto elogiativo. Congiura con l’assenza di una dialettica fra forze politiche e sociali anche il tipo di rapporti in questa campagna elettorale dai toni accesi e dalle frequenti “scomuniche” fra competitori che non poteva ovviamente favorire una ricerca di dialogo anche con le forze sindacali.
E questo atteggiamento ha fatto una vittima certa: il tema del lavoro, sul quale ci si è espressi con molta retorica ma senza esprimere quella progettualità che in tempi tanto difficili ed incerti sarebbe necessaria. Lo scenario che si profila è quindi denso di incognite, anche perché non ci sono più i partiti con dei legami stretti e continui con blocchi sociali e territori, mentre non si ascolta la voce di un movimento sindacale che avrà pure i suoi problemi e i suoi limiti ma presenta non solo un radicamento nel mondo del lavoro organizzato e diffuso ma anche un patrimonio di proposte utili per l’immediato futuro.
Possiamo partire da un fatto di cronaca: la morte di un ragazzo di 18 anni nel corso di un tirocinio in fabbrica, nella quale è rimasto schiacciato. Neppure questo incidente mortale, in una situazione nella quale ci si riempie la bocca con la parola giovani, ha spinto i leader delle varie forze politiche a recuperare i problemi della prevenzione, della formazione e dei controlli che esigerebbero di essere citati fra le priorità da risolvere, visto che si parla della vita di chi va a lavorare, o, addirittura, di chi vuol prendere confidenza con il lavoro.
Ma possiamo anche riferirci all’ultima tragedia provocata dalla alluvione nelle Marche: ogni qualvolta si è tentato di impostare una strategia di lungo periodo per rimettere in sicurezza i nostri territori, senza dovere pagare il maggior costo di vittime, distruzioni e risorse da impiegare per riparare ai danni, non si è andati più in là di interventi sporadici e non risolutivi. Eppure un programma a medio e lungo termine avrebbe garantito sicurezza alle popolazioni, recupero territoriale, molto lavoro qualificato e utilizzo di nuove tecnologie, preziose per innovare e creare nuove professionalità.
Ma possiamo spingerci anche sul versante della lunga polemica fra chi “avversa” il redito di cittadinanza e chi invece lo difende con le unghie e con i denti. Il risultato è che si è creata una immotivata avversione verso lo strumento che invece potrebbe essere modificato utilmente senza troppi strepiti, e dall’altra parte una opportunità ghiotta per i difensori del Rdc di lucrare sui timori soprattutto degli elettori del Sud. Con un risvolto assai poco positivo: se questa difesa sarà premiata, segnalerà la sfiducia della gente del Sud nei riguardi delle possibilità di creare lavoro stabile nelle loro regioni e, di conseguenza, il ripiegare sulla speranza di assistenza mentre i giovani che potranno non faranno altro che continuare ad andarsene all’estero. E’ così che si propone una nuova stagione di promozione del lavoro, di politiche attive del lavoro?
Ma non è finita: il paradosso più incredibile riguarda il salario minimo, sul quale non vi è stata mai una reale possibilità di ragionare sulla realtà della contrattazione e sulle prospettive di relazioni industriali in grado di eliminare le vere diseguaglianze che esistono nel mondo del lavoro a partire dalla giungla dei contratti nello stessa azienda. Ai suoi tempi Bruno Buozzi tentò di convincere i suoi compagni di lotta al fascismo che si doveva ricrear un sindacato democratico ma con un profilo anche “pubblico” proprio per evitare la nascita e la proliferazione di diseguaglianze fra lavoratori. Oggi si discute dello stesso tema, non solo dimenticando che esiste un dettato costituzionale da “riempire”, ma in modo – si perdoni la volgarità – assai più rozzo e semplicistico di quello dei padri del sindacalismo libero, emerso dalla Resistenza ma anche dall’impegno e dalla intelligenza di giganti della nostra democrazia. Il mondo del lavoro rimane penalizzato però anche su due altre tematiche che acquisteranno valore nel prossimo futuro: il fisco e la previdenza.
Con mille miliardi di reddito evaso ed accertato, di cui probabilmente con il passare del tempo si recupereranno le briciole, le forze politiche hanno citato genericamente la questione dell’evasione fiscale, comunque mai centrale in alcun ragionamento. Ma c’è di più, 50 anni senza una vera riforma fiscale hanno prodotto non solo i guasti che constatiamo tutti ma anche delle aberrazioni: mentre si discute di flax tax, non si dedica nessuna cura al fatto che ormai l’Irpef è una imposta che pagano quasi esclusivamente lavoratori e e pensionati. Un sistema… ad hoc che lascia allibiti tutti, meno coloro che dovrebbero provvedere a sistemare le cose. E c’è di più: con l’inflazione sempre più alta e con le bollette sempre più care esiste una norma finora “intoccabile” che offre la facoltà agli enti locali di aumentare le addizionali!
Sulle pensioni andiamo peggio: si promettono aumenti, sostegni ai giovani e si pensa così di ovviare all’impoverimento di assegni pensionistici che va avanti almeno da 30 anni, vale a dire da quando sono state eliminate le varie forme di rivalutazione al costo vita. L’Inps continua a fare assistenza e previdenza senza che si rifletta fin dove potrà farcela e che accadrà quando i suoi squilibri diventassero insostenibili, mentre nulla si propone per recuperare l’evasione contributiva, preferendo monitorare la situazione dei nostri pensionati… all’estero.
La campagna elettorale avrebbe dovuto inoltre offrire spunti nuovi per affrontare la transizione energetica ed ecologica. Certo, indietro non si torna, ma quello che è successo e sta accadendo dovrebbe portare la politica a modificare un percorso nel quale si sono inserite necessità ineludibili. Invece ci si divide fra ambientalisti di vecchio stampo e nuclearisti di maniera. Una logica riformista consiglierebbe di valutare con maggiore serenità le opportunità di utilizzare le fonti tradizionali, accanto a termovalorizzatori, accanto a trivellazioni mirate, mentre deve procedere con ragionevolezza e senza fughe ideologiche il tracciato teso a liberarsi delle fonti più inquinanti. Ma il riformismo non è una efficace arma elettorale…
Insomma il voto potrebbe aprire in questa situazione una stagione di incognite dagli esiti per ora imprevedibili. E forse spingere a trovare soluzioni di governo ancora una volta meno chiare di quel che si vorrebbe far credere. Il rischio però di mettere fra parentesi i problemi del lavoro con una inflazione galoppante, segni di recessione, impoverimento della nostra struttura industriale, i tassi in salita con ripercussione sul credito alle imprese ed alle famiglie, non può essere assolutamente corso. Per questo motivo il sindacato non potrà non mettere in campo la sua forza, la sua iniziativa, la sua proposta. Il riformismo invita da sempre a costruire, a riformare, a crescere. Oggi le sue tracce si perdono nei meandri di una politica confusa e con cadute di competenza. E’ probabile che ne vada realizzato uno nuovo, ravvivato dall’impegno dei giovani e del mondo del lavoro. E questa può essere un buon viatico per guardare ai prossimi mesi ed anni con realismo ma senza pessimismo.
Paolo Pirani