Nell’ideologia della destra al governo – a volte implicita, a volte gridata a gran voce – tutte le donne sono anzitutto mamme: effettive, mancate, future. Ma la maternità è una tassa pesante, che le donne sono chiamate a pagare a fatica e a caro prezzo. La tassa, tuttavia, prima che sul reddito – come sembra pensare la maggioranza di governo – si esercita sull’occupazione. Le neomamme, infatti, lasciano il lavoro oppure accettano di ridimensionarlo con il part time o con mansioni meno impegnative. Ecco perché la risposta non sono i vari bonus mamma, ma strutture sociali che mantengano aperto il mondo del lavoro anche alle donne che hanno un figlio in casa.
A pagare questa tassa, del resto, siamo un po’ tutti, perché l’assenza delle donne dal mondo del lavoro ha conseguenze visibili sull’economia del paese. E’ vero che poche mamme uguale pochi figli uguale pochi lavoratori. Le statistiche dicono che, al 2040, ci saranno in Italia sei milioni di persone in meno in grado di lavorare e contribuire al Pil. Ma anche un improvviso e improbabile boom di nascite, contrariamente a quanto sembrano pensare a destra, è una risposta che arriverebbe troppo tardi. Il problema è qui ed ora. E, anche se è impensabile chiudere quel buco di sei milioni senza i migranti, una maggior presenza di donne al lavoro sarebbe un contributo importante.Perché non arriva?
Una delle differenze più vistose fra noi e gli altri paesi europei è proprio la partecipazione delle donne al mondo del lavoro. A fine 2022, il tasso di occupazione femminile nei paesi dell’Unione europea sfiora, in media, il 70 per cento. In Italia, invece, la percentuale di donne fra i 20 e i 64 anni che lavorano tocca, a malapena, il 55 per cento: su cento donne, da noi ce ne sono quindici in più che non hanno un posto di lavoro.
Pregiudizi culturali? Meno opportunità? I dati messi insieme da un dossier del Servizio Studi della Camera danno una risposta diversa che chiama in causa appunto la maternità. Il tasso di occupazione, fra le donne senza figli, è infatti pari al 76,6 per cento. Ma questa percentuale crolla al 55 per cento per le donne con figli che ancora non vanno a scuola, perché hanno meno di sei anni.
Di fatto, una neomamma su cinque lascia puramente e semplicemente il lavoro. E non perché preferisce stare a casa a badare ai figli. In metà dei casi è la difficoltà di conciliare le esigenze del lavoro con quelle della maternità a motivare l’abbandono. Probabilmente, strutture di assistenza, a cominciare dagli asili nido, magari sul posto di lavoro, renderebbero più facile questa conciliazione. Un altro 20 per cento, invece, motiva esplicitamente l’abbandono con il costo delle sistemazioni alternative alla presenza della madre in casa rispetto allo stipendio percepito, un divario che difficilmente si può pensare di coprire a colpi di bonus mamma.
In totale, su 100 uomini ce ne sono 17 in più che lavorano, rispetto a cento donne. Ma la differenza schizza a 34 se si considerano le donne con un figlio minore. Gli abbandoni delle neomamme, tuttavia, sono solo un aspetto del problema. L’altro è la qualità del lavoro delle altre mamme, quelle che non si chiudono in casa.
E’ un altro modo di leggere il “gender gap”. In Italia, un uomo guadagna, in media, 26.227 euro l’anno, una donna 18.305, quasi 8 mila in meno. Il grosso della differenza, tuttavia, non è dato dalla discriminazione – che pure esiste – sul posto di lavoro. Il gap sulla retribuzione per ora di lavoro, fra uomo e donna, per lo stesso lavoro, è del 5 per cento. Incomprensibile, ingiustificabile, ma contenuto. Dove il divario diventa un golfo è nella retribuzione annuale, legata alle ore effettivamente lavorate. Qui la differenza è addirittura del 43 per cento. Perché? Per il part time. Un quarto degli uomini lavora part time, mentre le donne che non arrivano all’orario pieno sono la metà del lavoro femminile. E il grosso delle neomamme.
Maurizio Ricci