Gli economisti lanciano l’allarme: la crisi colpisce l’economia non solo nell’immediato, riducendo l’attività, ma anche nel futuro, diminuendo il prodotto potenziale, ovvero quello che l’economia potrebbe produrre, se e quando funzionerà a pieno regime. Di solito, questo avviene perché, con la crisi, diminuisce la quantità di capitale e anche di lavoro, immediatamente disponibile: c’è chi ha investito all’estero e chi non vuole più o non riesce a tornare a lavorare. Nel caso italiano, c’è un avvitamento perverso in più. Se tutto questo discorso sul prodotto potenziale non è chiaro, infatti, quello che sta avvenendo in Italia dovrebbe rendere evidente perché le potenzialità diminuiscono e la ripresa sarà faticosa e difficile: le imprese, infatti, stanno abbassando la qualificazione media degli addetti. E addetti meno qualificati vuol dire imprese meno produttive.
In altre parole, a caccia dell’ennesimo risparmio sul costo del lavoro, gli imprenditori sembrano decisi a picconare le speranze di ripresa. Fra il 2007 e il 2013, infatti, il numero di occupati, con età fra i 15 e i 64 anni, è diminuito di 852 mila unità. E’ il costo della crisi sul fronte del lavoro. Ma, attenzione, ad essere stati tagliati non sono stati, indistintamente, i lavoratori in genere. Al contrario: il numero di addetti in professioni di tipo intermedio e non qualificate è, infatti – sorpresa – aumentato: 216 mila unità nel primo caso, 359 mila nel secondo. Ad essere state decimate, invece, sono state solo ed esclusivamente le professioni più qualificate, che hanno perso 1 milione 427 mila posti. Quasi il 16 per cento di quelle esistenti nel 2007. Una mattanza. Di fatto, un lavoratore qualificato su sei è stato accompagnato al cancello. O, più realisticamente, questa ridistribuzione del lavoro ha comportato l’inserimento di lavoratori qualificati in mansioni inferiori alla loro qualifica.
Il fenomeno non è solo italiano. I lavoratori sovraqualificati rispetto alle mansioni effettivamente svolte sono, grosso modo, in Europa, poco sopra il 10 per cento del totale. Nel corso della crisi sono aumentati un po’ dovunque, diminuendo solo in Germania e in Danimarca. Ma in Italia, dove sono ingannevolmente pochi (solo il 7,4 per cento, ma perchè da noi sono pochi i laureati), l’aumento dal 2007 è schizzato come un missile: l’incremento dei sovraqualificati, in questi anni, è stato superiore al 50 per cento.
Per l’economia italiana nel suo insieme, e per il futuro delle singole imprese, è una sciagura. L’Italia già insegue con il fiato grosso le altre economie avanzate: produciamo pochi brevetti, abbiamo pochi laureati, una cattiva formazione professionale, un sistema scolastico superato ed inefficiente. Riducendo la qualificazione della forza lavoro all’interno delle singole imprese o utilizzando solo in modo parziale le sue competenze (con effetti a cascata anche sulla soddisfazione e l’impegno di chi lavora) l’Italia si allontana ulteriormente dalla strada dell’innovazione e dell’alta tecnologia che è, oggi, la via obbligata dello sviluppo. La controprova dell’arretratezza italiana è nell’asfittico trend di sviluppo (in assoluto e in confronto con gli altri paesi avanzati) dell’economia negli ultimi venti anni. Ora, la situazione è peggiorata: una forza lavoro meno qualificata e competente è anche una forza lavoro meno produttiva. Non bastano un prezzo del petrolio dimezzato o il denaro di Draghi a buon mercato a ridare prospettiva all’economia. Senza un salto di produttività, rompere la spirale del ristagno sarà sempre più difficile. Per ora, andiamo nella direzione opposta.
Maurizio Ricci