• Today is: giovedì, Giugno 1, 2023

Una poesia su questi tempi difficili

redazione
Marzo30/ 2020

PENSIERI

AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

 

di Amedeo Fago

 

L’infanzia che ho vissuto

in quella guerra

spesso mi torna in mente

in questa guerra.

 

Guerra mondiale

è stata definita

contro un nemico

che nessuno vede.

 

In quella guerra

degli anni quaranta

Roma fu dichiarata

città aperta.

 

In questa guerra

del duemila venti,

del mondo le città,

vengono chiuse.

 

Ora è vecchiaia

quell’infanzia antica

ma l’emozione

è sempre nel presente.

 

Vedo il sole che entra

obliquamente

dalla finestra

della nuova stanza

 

così come

obliquamente entrava

nella mia cameretta

da bambino.

 

Sentivo il tempo

che passava lento

popolato da spettri

e da paure.

 

Ora paure e spettri

del presente

hanno frenato il tempo

che correva.

 

Vedo le strade vuote

e nella mente

si sovrappone

via Civitavecchia.

 

La strada larga

con i sampietrini,

il marciapiedi

pieno di formiche,

 

che costeggiava

il giardinetto ombroso

col nespolo, la palma

e il gelsomino,

 

un arancio selvatico

ed un pesco

che produceva solo

frutti acerbi.

 

Il portone, l’androne,

l’ascensore

e la casa che mi sembrava

enorme.

 

In quella casa

di via Civitavecchia

ho trascorso

infanzia e giovinezza:

 

fui scaricato lì

dalla cicogna

due giorni dopo

che il duce dittatore

 

aveva dato

l’annuncio di guerra

alle nazioni

Francia ed Inghilterra.

 

Mancava l’acqua

durante quella guerra

e si facevano file

alle fontane;

 

ma per me era normale:

la cicogna

mi avea portato lì

in quel frangente.

 

Era normale

il lume di candela

quando la luce

delle lampadine

 

veniva meno

senza una ragione.

Era normale

che la cucina a gas

 

fosse sostituita

dal carbone.

Era normale

vivere chiusi in casa, 

 

era normale

la città deserta

da soldati tedeschi

sorvegliata

 

La carenza di cibo

era normale

come la gioia

per una caramella….

 

Ero felice

se un bombardamento

dalle sirene urlanti

era annunciato.

 

Quando accadeva

il nostro appartamento,

che al pianoterra

era collocato,

 

diventava

rifugio improvvisato

per gli inquilini

di tutto il casamento.

 

Non mi rendevo conto

che la vita

di tutti noi

poteva terminare

 

se la bomba

sganciata da un pilota

sopra di noi

cadeva a sterminare

 

Non concepivo

che gli esseri umani

potessero distruggersi

l’un l’altro

 

Ero un bambino sano

e immaginavo

che il fine della vita

era l’amore

 

Un cordino di seta

che pendeva

dagli occhiali a pince-nez

del senatore

 

che sopra noi abitava,

al primo piano,

mi affascinava

e sempre ci giocavo

 

quando scendeva

per i bombardamenti.

Mi guardava ridendo,

ed io ridevo.

 

Oggi non è tra uomini

la guerra,

è la natura

che si è ribellata

 

attraverso

la forma primordiale

di un virus,

che non è neppure vita,

 

come volesse dire

al nostro tempo

che è necessario

un ricominciamento.

 

Milioni di anni fa,

su questa terra,

un’altra specie

fu disintegrata.

 

Dinosauri

è il nome che la scienza

ha attribuito

a quella specie estinta,

 

e al giungere

di un grande meteorite

attribuì

la causa di estinzione.

 

Giuliano Scabia,

poeta e drammaturgo,

su questa storia

ha scritto una commedia

 

“della fine del mondo”

intitolata.

nel giugno scorso

fu rappresentata

 

con gran successo

al festival di “Armunia”

ed anch’io fui coinvolto

in quell’impresa

 

Il ruolo dell’autore

ho interpretato

che i dinosauri

segue nell’azione

 

che dialoga

col topo e il meteorite

e al pubblico

disvela la morale.

 

Ancor non si parlava

di infezione

quando ci fu

la rappresentazione

 

ma io lessi

quel testo di teatro

come messaggio,

come avvertimento

 

di stare in guardia

ché non è affatto escluso

che la fine del mondo

stia arrivando.

 

Di quale mondo,

direbbe l’autore.

Risponderebbe il topo,

degli umani.

 

I dinosauri

con il meteorite,

gli esseri umani

con il coronavirus.

 

Da tempo Greta Tunberg

va dicendo

che il mondo rischia

il disfacimento.

 

Oggi vediamo gli uomini

atterriti

da una cellula

infinitesimale.

 

Questa guerra non porta

distruzioni,

solo la vita umana

che scompare.

 

Voglio pensar

con molta fantasia

che a scomparire

sia il capitalismo

 

e che quel mondo

sognato e vagheggiato

in cui tutti gli umani

son fratelli

 

sia il risultato

della grande guerra

che dalla scienza umana

sarà vinta.

 

Scrivo con la matita

Caran d’Ache

che un’artista argentina

mi ha donato:

 

si chiama

Gabriela Aberasturi

ed ero nel suo studio

il quattro marzo.

 

Ero andato a vedere

il suo lavoro,

a Buenos Aires,

dove mi trovavo.

 

Quel lavoro mi parve

entusiasmante;

fatto con certosina

abnegazione,

 

e con l’uso, tra l’altro,

di matite

dalle durezze

tutte differenti.

 

Quando alla facoltà

di Architettura

cominciai a conoscer

le matite,

 

la mina effe

fu quella che più amai,

per la sua mal celata

morbidezza.

 

Questo racconto ho fatto

a Gabriela

che ha condiviso il mio

punto di vista;

 

ha preso da un cassetto

una matita

e me l’ha regalata:

era una effe. 

 

Con quella effe ora

sto scrivendo

questo bizzarro mio

componimento

 

che in questi giorni

di coronavirus,

è forse il frutto

dell’isolamento.

 

Penso a mio padre

che in età avanzata

era solito scrivere

poesie.

 

Poesie per occasioni

di famiglia

che poi leggeva

al termine dei pranzi.

 

Era un’usanza antica,

popolare…

ma mio padre era antico,

ottocentesco…

 

Sicuramente

in questo mio poetare

c’è una traccia di quello

di mio padre.

 

Forse è genetica

forse culturale

l’eredità che mi conduce

a questo…

 

Ma in un messaggio

Francesco Tarquini,

traduttor di poeti

e letterato,

 

mi ha scritto che

detesta le poesie

scritte per occasioni

di ogni tipo.

 

Era in risposta

a un altro mio messaggio

trasmesso con WhatsApp

al suo indirizzo

 

con cui gli avevo inviato

una poesia,

da una voce suadente

recitata

 

su un’immagine video

un po’ scontata.

Mariangela Gualtieri

è la scrittrice

 

che l’ha composta

per il nove marzo,

quando, con un decreto

del governo,

 

furono chiusi

tutti gli esercizi

ed ogni attività

fu congelata.

 

All’amico Francesco

chiedo scusa

per aver ignorato

il suo giudizio

 

che, a priori,

già mi condannava.

Quella condanna

mi è rimasta dentro

 

per cui, come facevano

gli attori

di compagnie teatrali

d’altri tempi,

 

io chiedo venia

per questo mio poetare

che è sgorgato dal cuor

senza volere….

redazione