PENSIERI
AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
di Amedeo Fago
L’infanzia che ho vissuto
in quella guerra
spesso mi torna in mente
in questa guerra.
Guerra mondiale
è stata definita
contro un nemico
che nessuno vede.
In quella guerra
degli anni quaranta
Roma fu dichiarata
città aperta.
In questa guerra
del duemila venti,
del mondo le città,
vengono chiuse.
Ora è vecchiaia
quell’infanzia antica
ma l’emozione
è sempre nel presente.
Vedo il sole che entra
obliquamente
dalla finestra
della nuova stanza
così come
obliquamente entrava
nella mia cameretta
da bambino.
Sentivo il tempo
che passava lento
popolato da spettri
e da paure.
Ora paure e spettri
del presente
hanno frenato il tempo
che correva.
Vedo le strade vuote
e nella mente
si sovrappone
via Civitavecchia.
La strada larga
con i sampietrini,
il marciapiedi
pieno di formiche,
che costeggiava
il giardinetto ombroso
col nespolo, la palma
e il gelsomino,
un arancio selvatico
ed un pesco
che produceva solo
frutti acerbi.
Il portone, l’androne,
l’ascensore
e la casa che mi sembrava
enorme.
In quella casa
di via Civitavecchia
ho trascorso
infanzia e giovinezza:
fui scaricato lì
dalla cicogna
due giorni dopo
che il duce dittatore
aveva dato
l’annuncio di guerra
alle nazioni
Francia ed Inghilterra.
Mancava l’acqua
durante quella guerra
e si facevano file
alle fontane;
ma per me era normale:
la cicogna
mi avea portato lì
in quel frangente.
Era normale
il lume di candela
quando la luce
delle lampadine
veniva meno
senza una ragione.
Era normale
che la cucina a gas
fosse sostituita
dal carbone.
Era normale
vivere chiusi in casa,
era normale
la città deserta
da soldati tedeschi
sorvegliata
La carenza di cibo
era normale
come la gioia
per una caramella….
Ero felice
se un bombardamento
dalle sirene urlanti
era annunciato.
Quando accadeva
il nostro appartamento,
che al pianoterra
era collocato,
diventava
rifugio improvvisato
per gli inquilini
di tutto il casamento.
Non mi rendevo conto
che la vita
di tutti noi
poteva terminare
se la bomba
sganciata da un pilota
sopra di noi
cadeva a sterminare
Non concepivo
che gli esseri umani
potessero distruggersi
l’un l’altro
Ero un bambino sano
e immaginavo
che il fine della vita
era l’amore
Un cordino di seta
che pendeva
dagli occhiali a pince-nez
del senatore
che sopra noi abitava,
al primo piano,
mi affascinava
e sempre ci giocavo
quando scendeva
per i bombardamenti.
Mi guardava ridendo,
ed io ridevo.
Oggi non è tra uomini
la guerra,
è la natura
che si è ribellata
attraverso
la forma primordiale
di un virus,
che non è neppure vita,
come volesse dire
al nostro tempo
che è necessario
un ricominciamento.
Milioni di anni fa,
su questa terra,
un’altra specie
fu disintegrata.
Dinosauri
è il nome che la scienza
ha attribuito
a quella specie estinta,
e al giungere
di un grande meteorite
attribuì
la causa di estinzione.
Giuliano Scabia,
poeta e drammaturgo,
su questa storia
ha scritto una commedia
“della fine del mondo”
intitolata.
nel giugno scorso
fu rappresentata
con gran successo
al festival di “Armunia”
ed anch’io fui coinvolto
in quell’impresa
Il ruolo dell’autore
ho interpretato
che i dinosauri
segue nell’azione
che dialoga
col topo e il meteorite
e al pubblico
disvela la morale.
Ancor non si parlava
di infezione
quando ci fu
la rappresentazione
ma io lessi
quel testo di teatro
come messaggio,
come avvertimento
di stare in guardia
ché non è affatto escluso
che la fine del mondo
stia arrivando.
Di quale mondo,
direbbe l’autore.
Risponderebbe il topo,
degli umani.
I dinosauri
con il meteorite,
gli esseri umani
con il coronavirus.
Da tempo Greta Tunberg
va dicendo
che il mondo rischia
il disfacimento.
Oggi vediamo gli uomini
atterriti
da una cellula
infinitesimale.
Questa guerra non porta
distruzioni,
solo la vita umana
che scompare.
Voglio pensar
con molta fantasia
che a scomparire
sia il capitalismo
e che quel mondo
sognato e vagheggiato
in cui tutti gli umani
son fratelli
sia il risultato
della grande guerra
che dalla scienza umana
sarà vinta.
Scrivo con la matita
Caran d’Ache
che un’artista argentina
mi ha donato:
si chiama
Gabriela Aberasturi
ed ero nel suo studio
il quattro marzo.
Ero andato a vedere
il suo lavoro,
a Buenos Aires,
dove mi trovavo.
Quel lavoro mi parve
entusiasmante;
fatto con certosina
abnegazione,
e con l’uso, tra l’altro,
di matite
dalle durezze
tutte differenti.
Quando alla facoltà
di Architettura
cominciai a conoscer
le matite,
la mina effe
fu quella che più amai,
per la sua mal celata
morbidezza.
Questo racconto ho fatto
a Gabriela
che ha condiviso il mio
punto di vista;
ha preso da un cassetto
una matita
e me l’ha regalata:
era una effe.
Con quella effe ora
sto scrivendo
questo bizzarro mio
componimento
che in questi giorni
di coronavirus,
è forse il frutto
dell’isolamento.
Penso a mio padre
che in età avanzata
era solito scrivere
poesie.
Poesie per occasioni
di famiglia
che poi leggeva
al termine dei pranzi.
Era un’usanza antica,
popolare…
ma mio padre era antico,
ottocentesco…
Sicuramente
in questo mio poetare
c’è una traccia di quello
di mio padre.
Forse è genetica
forse culturale
l’eredità che mi conduce
a questo…
Ma in un messaggio
Francesco Tarquini,
traduttor di poeti
e letterato,
mi ha scritto che
detesta le poesie
scritte per occasioni
di ogni tipo.
Era in risposta
a un altro mio messaggio
trasmesso con WhatsApp
al suo indirizzo
con cui gli avevo inviato
una poesia,
da una voce suadente
recitata
su un’immagine video
un po’ scontata.
Mariangela Gualtieri
è la scrittrice
che l’ha composta
per il nove marzo,
quando, con un decreto
del governo,
furono chiusi
tutti gli esercizi
ed ogni attività
fu congelata.
All’amico Francesco
chiedo scusa
per aver ignorato
il suo giudizio
che, a priori,
già mi condannava.
Quella condanna
mi è rimasta dentro
per cui, come facevano
gli attori
di compagnie teatrali
d’altri tempi,
io chiedo venia
per questo mio poetare
che è sgorgato dal cuor
senza volere….