“Hai fatto il vaccino?”. “Sì, Pfizer”. “Beato te, almeno devi aspettare poco per la seconda dose. Io AstraZeneca e mi tocca attendere quasi due mesi e mezzo per completare l’operazione”. “Va bene, però intanto sei protetto oltre il cinquanta per cento. Hai avuto sintomi?”. “Febbre, il primo giorno. Ma con la tachipirina è passato tutto. E tu?”. “Niente, neanche il dolore al braccio. Ma dicono che potrei avere qualche disturbo dopo la prossima inoculazione”. “Un mio amico, che aveva preso il Covid, l’hanno vaccinato ed è stato di nuovo male”. “Mah, in verità, non è che sia tutto chiaro. Ad esempio, nessuno dice quanto dura la copertura”. “Sei o otto mesi, ho sentito”. “E poi? Dovremo rifarlo? E quante volte, una o due l’anno?” “Magari trovano il modo per associarlo a quello per l’influenza”. “Poi c’è l’incubo delle varianti, ogni volta una nuova”. “Già. Chissà quando potremo toglierci la mascherina”.
Dialoghi in fotocopia. Non si parla d’altro. Inevitabile, certo. È come fossimo dentro una bolla terapeutica. Il resto arriva come un’eco lontana, ovattata, un sottofondo di avvenimenti rispetto ai quali pensiamo ci sarà tempo per occuparsene. Una rarefazione del processo conoscitivo e relazionale, il rinvio ad un mitico dopo che chiamiamo ritorno alla normalità. La disoccupazione, i migranti morti in mare, la violenza diffusa, la magistratura screditata. Ce ne occuperemo domani. Possibile che sui diritti civili a suonare la sveglia debba essere Fedez?
Solipsismo sanitario? No, in verità. Ci si vaccina non unicamente per se stessi ma per proteggere gli altri. La ricerca dell’immunità di gregge rappresenta la riaffermazione dell’interesse generale e del bene comune. Della democrazia. Il contrario dei negazionisti che mettono a repentaglio l’intera società. In un loro sito, tanto per fare un esempio, sostengono che la tragedia dell’India sia tutta un’invenzione. “Dopo le bare di Bergamo è la volta delle pire crematorie di Nuova Delhi”, proclama un lungo sproloquio che intende denunciare “l’impostura mediatica”.
Le immagini dei morti per le strade e dei roghi funerari “sarebbero quelle di un grave incidente avvenuto nel maggio 2020 in una fabbrica di polimeri nell’Andhra Pradesh; una fuga di gas che ha ucciso 12 persone”. Viene ricordato che i riti cinerari prescritti dall’induismo esistono da tremila anni e che sono persino oggetto di escursioni turistiche. Insomma, sarebbe tutta una montatura, non si capisce bene a quale fine orchestrata. Agghiacciante la conclusione, con allegata tabella: la variante indiana dimostrerebbe che ad ammalarsi gravemente e a morire sono le persone già vaccinate. La stessa cosa starebbe avvenendo in Mongolia.
Sul fronte opposto continua la battaglia per ottenere la concessione delle licenze o almeno la temporanea sospensione dei brevetti. L’obiettivo è una produzione su larga scala, coinvolgendo anche i Paesi poveri. Una causa persa in partenza. Inguaribili sognatori che continuano a sbattere la faccia contro il moloch della proprietà privata.
Negazionisti da una parte, Utopisti dall’altra. In mezzo la moltitudine degli Speranzosi (non nel senso di seguaci del ministro). Coloro che non vedono l’ora di terminare il ciclo vaccinale o che l’hanno appena concluso. Sballottati sulle montagne russe dei contraddittori giudizi riguardanti l’efficacia e gli effetti.
Sembrano tre pianeti diversi; eppure, è un unico mondo. Un’umanità impaurita, costernata, confusa, in balia degli eventi. La lotta alla malattia sta diventando essa stessa una malattia.
Il mondo, prima, era guasto. Ora, dopo la pandemia, dovremmo aggiustarlo. Sempre che la ragione, a forza di isolamenti e di sospensione delle libertà, non si sia intorpidita. Ascoltiamo, con “le orecchie sensibili” di cui parla Kandinskij, “il brontolio sotterraneo”.
“Le foglie il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva altre ne germina, e torna l’ora della primavera”, declamava Omero.
Va riconquistato un candido ed invincibile buonumore.
“Ha letto Spinoza?”, chiede l’anziano professore. “No, devo essermelo perso”, risponde, ineffabile, Alberto Sordi.
“Ognuno è padrone dei propri pensieri”, commenterebbe il buon Baruch.
Marco Cianca