Molto probabilmente non ci sarà lo sciopero generale sulle pensioni. I sindacati confederali decideranno di avviare una mobilitazione caratterizzata da molte iniziative territoriali o di singole categorie, ma che non culminerà in una giornata di sciopero generale che, inevitabilmente, avrebbe il significato di una sfiducia, delle organizzazioni sindacali, nei confronti del governo Draghi.
La posta in gioco, il PNRR, è molto più importante di qualche bandierina da difendere per quanto riguarda il sistema pensionistico. Quota 100 era un assurdo sotto tutti i punti di vista: nessun risultato sulle assunzioni, praticamente utilizzata dai maschi e nel pubblico impiego, non ha avuto nemmeno l’attrattività che si era prefissa nei confronti della platea dei lavoratori potenzialmente interessati. Allora perché tutto questo clamore? Perché da anni il tema delle pensioni continua a non avere una risposta esauriente. Abbandonato il sistema a ripartizione (retributivo) nemmeno la riforma “Fornero”, necessaria ad evitare il default del sistema previdenziale è stata percepita come un approdo a regime, magari doloroso, ma sostanzialmente equo e socialmente sostenibile.
Al netto delle inevitabili strumentalizzazioni di certe forze politiche, che ne hanno fatto una bandiera elettorale, senza pudore e con scarso senso della realtà, rimane il fatto che il criterio di collegare l’età pensionabile alle aspettative di vita, se di per sé necessario a garantirne la sostenibilità, aveva il difetto di non garantire la necessaria flessibilità applicativa, che pure c’è in tutti gli altri sistemi pensionistici in Europa (non a caso l’effettiva anzianità con la quale si va in pensione diverge da quella determinata per legge in quasi tutti i Paesi del continente).
Procediamo con ordine: per grandi linee il sistema “retributivo” a ripartizione si fondava, per garantire la sua sostenibilità, sul presupposto di un robusto e costante aumento del PIL nel medio lungo termine, e sul rapporto, necessario, di tre lavoratori attivi per ciascun pensionato. Mi si perdonerà l’eccessiva semplificazione, ma è bene ricordare questi elementari presupposti per dimostrare che, nel lungo periodo, questo sistema non era sostenibile. Il passaggio al sistema contributivo, sollecitato anche dalle organizzazioni sindacali, era quindi inevitabile, come era inevitabile, il ricorso alla “terza gamba” la previdenza integrativa (per la verità in questo caso sostenuta con una certa tiepidezza, se non addirittura ostilità, dalla stessa organizzazione sindacale che più di altre aveva spinto per il sistema contributivo, considerato, a ragione, più equo). Insomma, indietro non si poteva tornare, e questo lo sanno tutte le organizzazioni sindacali, ma andare avanti in quale direzione? Questo è il vero dilemma di un sistema che appunto si chiama previdenziale, almeno nel senso che si suppone “previdente” delle necessità del lavoratore e della lavoratrice in uscita dal sistema produttivo.
Io penso che i “paletti” fissati da Draghi nel dichiarare la propria disponibilità al confronto sul tema pensionistico, oltre i tempi di presentazione della legge finanziaria, devono essere attentamente valutati dalle parti sociali. Quando dico le parti sociali intendo non solo i sindacati ma anche la Confindustria, la quale, forse, farebbe meglio a considerare una certa disciplina dei propri associati che, in materia pensionistica, molte volte, hanno scelto la strada “più breve” (prepensionamenti) per gestire le proprie esigenze di turn-over (non parlo solo di crisi aziendali).
Insomma, forse è il caso che sulla base di alcuni capisaldi si avvii un confronto tra le parti sociali sulla “previdenza che vorremmo” prima ancora di affrontare questo tema con il Governo, magari ancora una volta solo in occasione della presentazione della prossima finanziaria.
Provo a indicare alcuni di questi aspetti, a mio parere necessari: il sistema contributivo è una scelta irreversibile, ma se io lavoro di più devo avere la sicurezza che il mio reddito accantonato mi verrà restituito interamente, con gli interessi; ora non è esattamente così, se non sbaglio. Inoltre, la previdenza integrativa, i fondi pensionistici (almeno quelli di origine contrattuale) devono poter contribuire ad introdurre forme di flessibilità, per poter anticipare l’uscita dal mondo del lavoro di qualche periodo (mese o anni). Penso, ad esempio, ai casi di riorganizzazione aziendale, in cui il combinato disposto tra ammortizzatori sociali e forme di previdenza integrativa al reddito, possono aiutare i soggetti interessati a raggiungere più agevolmente l’età pensionabile. Certo questo richiede una maggiore adesione ai fondi di pensione integrativa, è ormai giunto il tempo per definire in sede contrattuale, l’obbligatorietà dell’adesione delle aziende e dei lavoratori. Se qualcuno vuol poi aderire a qualche PIP, libero di farlo, ma come privato risparmiatore. Infine, come peraltro suggerito dallo stesso presidente Draghi, occorre superare, una volta per tutte, il principio “astrattamente ideologico” che chi va in pensione non debba più lavorare o meglio, se lo fa deve essere penalizzato. Questa impostazione non soddisfa nessun criterio razionale, non quello economico, perché impedisce ad una determinata fascia di popolazione di continuare a contribuire alla crescita complessiva del Paese; non quello sociale perché è largamente dimostrato che non c’è nessuna intercambiabilità tra il lavoratore anziano che abbandona il posto di lavoro e l’inserimento al suo posto di nuovi lavoratori giovani, questa interscambiabilità non segue il principio (burocratico) della sostituzione della “pianta organica”, ci sono attività che cambiano cosi velocemente che le nuove competenze necessarie devono poter convivere con i vecchi mestieri pur non essendo tra loro interscambiabili.
Si può chiedere a coloro che riprendono a lavorare dopo la pensione di continuare a versare un simbolico contributo alla previdenza collettiva, magari destinandolo specificamente ad incrementare un “fondo di garanzia” ad hoc per i giovani con carriere discontinue, ma non si può, e non si deve, penalizzare il loro reddito con provvedimenti punitivi sul cumulo di reddito da pensione e lavoro.
Insomma io credo che un confronto tra parti sociali possa produrre le proposte più adeguate ad indicare un nuovo assetto della previdenza in Italia a regime che, non solo sia sostenibile ed equo, ma che sia anche utile a rilanciare la produttiva e la crescita complessiva del sistema economico nazionale, senza la quale nessun sistema previdenziale sopravvive nel lungo periodo.
Luigi Marelli